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Full metal jacket
Anno: 1987
Regista: Stanley Kubrick;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Gran Bretagna; USA;
Data inserimento nel database: 30-11-2004


La grande guerra

Full metal jacket. Stanley Kubrick. 1987. G.B. - U.S.A.

Attori: Matthew Modine, Adam Baldwin, Vincent D'Onofrio, Kevin Major Howard, John Terry, R. Lee Ermey

Durata: 116’

 

 

Stati Uniti. Parris Island. South Carolina. United States Marine Corps. Un gruppo di ragazzi viene addestrato dal rude ed isterico sergente Hartman. L’obiettivo è di maturarli per il Vietnam, rendendoli delle macchine da guerra, degli assassini impeccabili. A seguito del duro allenamento e delle continue violenze psicologiche del sergente, il soldato semplice Palla di lardo si suicida prima ancora di partire per il fronte. Terminato il corso, tra i militari che partono c’è anche il soldato Joker, reporter di guerra. Una volta giunti sul posto, l’intera truppa è convinta che durante il Tet, il capodanno vietnamita, non ci saranno sorprese. In realtà gli attacchi vietnamiti proseguono. Joker si addentra nel fronte per fare un reportage giornalistico fino a che non arriva nella città di Hue, dove bisogna fare strada. Messo sotto scacco da un cecchino, ciò che resta di un gruppo di militari riesce ugualmente ad occupare il palazzo dal quale sparava. Scoprono che si tratta di una giovane donna vietnamita. Toccherà proprio al soldato Joker darle il colpo di grazia.

Ispirato al romanzo The short timers di Gustav Hasford, il film di Kubrick è uno dei migliori manifesti antimilitaristi mai portato sullo schermo. Secco, diviso in due tronconi (formazione e azione), sarcastico ed a volte sfacciatamente diretto (reportage organizzato dal soldato Joker), il film entra nella guerra aprendo gli occhi dello spettatore su frammenti di crudeltà (le fotografie che fanno i militari affianco ai cadaveri coreani), di violenza e assurdità dei conflitti militari (il simbolo della pace e la scritta nato per uccidere). Liberandosi dalle dinamiche del potere che lo avevano ispirato per la stesura di un altro grande progetto antimilitarista com’era stato il film Orizzonti di gloria (1957), Kubrick sceglie ancora una volta di scendere al fianco dei militari, sul loro territorio, dissacrando il loro linguaggio, rendendo aberrante ogni loro singolo gesto, inumidendo di odio ogni loro pensiero o comportamento. Hartman che dopo pochi minuti guarda in camera e grida, in realtà ammonisce il pubblico con il suo “Qui tu non riderai, non piangerai, qui si riga dritto e basta, ti faccio vedere io…” prendendo le distanze da una serie di film (alla John Wayne sembra voler dire lo stesso regista) e mettendo in guardia lo spettatore su quanto passerà da quel momento in poi sullo schermo. Tutta la prima parte del film (i primi quaranta minuti) è concentrata sull’addestramento e la voce che più si sente, che assorda e grida, è proprio quella del sergente Hartman, in un processo che sembra voler parlare di lavaggio mentale militare, urlato e umiliante, spartano e cameratesco, avvilente e massacrante. Proprio la figura dell’istruttore, esempio del potere manipolatore e guerrafondaio, ricorda quella del poliziotto penitenziario de Arancia meccanica (1971), dove ancora una volta a parlare era un potere che aveva bisogno di alzare la voce per sottomettere il singolo. Tornando alla pellicola, tutta la seconda parte è davvero impressionante, meno iperreale e più diretta di Apocalypse now (1979) di Francis Ford Coppola, soprattutto grazie alle scenografie (perfette) che Anton Furst ha realizzato negli studios inglesi, senza dunque ricorrere all’ambiente reale dal quale partì Coppola per raggiungere il suo iperrealismo bellico. Ma Full metal jacket è anche meno compiaciuto di Platoon (1986) di Oliver Stone, perché il film di Kubrick raggiunge la sua iperrealtà solo attraverso la schietta crudezza dei fatti, già dai p.p. dei militari che si lasciano rasare la testa, senza entrare troppo nelle dinamiche relazionali dei protagonisti, senza cioè produrre una vera struttura drammaturgica, ma osservando da dentro tutto un processo che non può essere scisso dalla preparazione (forma mentis) che anticipa l’evento bellico. Da questo punto di vista, ancora una volta, il film di Kubrick non può essere visto per quello che racconta, ma solo attraverso quello che dice. Negli occhi dei marines kubrickiani brilla un minimo di vita che presto viene spenta (è questo anche il significato del suicidio di Vincent D’Onofrio) una volta che questi sono trasformati in macchine, automi da guerra. Sceso sul territorio di guerra, Kubrick abbandona ogni manierismo, lascia per la strada la maggior parte dei topos del genere (stoniani): non c’è scontro fra culture, ma c’è l’analisi di un’unica cultura, quella americana, in grado di massacrare un popolo e tornare a casa cantando le canzoni di Topolino. In un processo di bilanciamenti e pesature, ad ogni sguardo corrisponde l’atroce pensiero della morte, ad ogni battuta goliardica corrisponde la sofferenza di qualcuno, dietro ogni carrello od ogni inquadratura si nasconde l’orrore senza giustificazione: la violenta natura umana. Più che un film di guerra dunque (ed in questo è più vicino a Coppola che a Stone) si tratta di un film sull’uomo, svestito di significati narrativi e rappresentante soprattutto della natura che lo muove, assassina, violenta ed omicida, psicotica e devastante. Non è quindi la guerra l’orrore del mondo, ma gli uomini che la combattono. Kubrick affonda a colpi di mannaia, anzi sarebbe meglio dire a colpi di proiettili rinforzati di metallo. La voce italiana del sergente Hartman (interpretato da R. Lee Ermey) è di Eros Pagni. A tale proposito si può aggiungere che R. Lee Ermey era un vero sergente dei marines e che oltre a recitare nel film fece parte del gruppo di consulenti militari del regista [i].

 

 

Bucci Mario

        [email protected]



[i] Fernaldo Di Giammatteo. Dizionario del cinema americano. Editori riuniti.