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Two sisters - Janghwa, Hongryeon
Anno: 2003
Regista: Kim Jee Woon;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Corea del Sud;
Data inserimento nel database: 12-11-2004


La grande guerra

Two sisters. Kim Jee Woon. 2003. COREA DEL SUD.

Attori: Kap-su Kim, Jung-ah Yum, Su-jeong Lim, Geun-yeong Mun

Durata: 115’

Titolo originale: Janghwa, Hongryeon

 

 

In un ospedale psichiatrico un medico chiede ad una sua giovane paziente di raccontarle come sono andati i fatti… Due sorelle, Su-mi e Su-yeon, fanno ritorno in una casa di campagna dove hanno trascorso la loro infanzia. Ad attenderle c’è Eun-joo, la matrigna con la quale le due ragazze non riescono ad andare d’accordo. La donna ha, infatti, sostituito nella famiglia la madre naturale delle due sorelle, morta suicida, e vive al fianco del padre, distratto e spesso assente da casa. La casa sembra posseduta dai fantasmi, compreso quello della madre morta che appare alle due sorelle terrorizzandole. Tra le ragazze e la matrigna i rapporti peggiorano con il trascorrere dei giorni e con l’accrescersi dei ricordi delle prime fino a che il padre, ormai distrutto dalla situazione, non è costretto a chiedere aiuto di nuovo ai medici. In realtà Su-mi non ha una sorella e non ha nemmeno una matrigna: è pazza, e deve essere rimessa in terapia nella clinica psichiatrica.

La storia, non originale, prende spunto da un’antica fiaba coreana (“Janghwa, Hongryeon” - “Fiore di rosa, Loto rosso” - come recita difatti il titolo originale del film) più volte portata sullo schermo (la prima volta nel 1925) e che tratta in sostanza del quieto rapporto famigliare incrinato dall’ingresso di un’estranea nella relazione tra i genitori. Two sisters è quindi una storia di traumi infantili che non si sottrae alla tendenza che da quasi sei, sette anni si diffonde, a partire proprio dal cinema orientale, di scegliere l’infanzia come luogo dove si concretizzano e sviluppano le paure più angoscianti. È questo il filone nel quale Two sisters s’inserisce, ricco di pellicole giapponesi, coreane e cinesi, che guardano al fanciullo (secondo la migliore tradizione fiabesca) come oggetto catalizzatore dei comportamenti malvagi degli adulti e come soggetto attivo in grado di produrre (ed a volte concretizzare) veri e propri fantasmi dell’infanzia. Nel caso specifico di Two sisters, ciò che l’inconscio della ragazza nasconde e cerca di sopprimere è il trauma di una quiete famigliare interrotta bruscamente e nei quali meccanismi subentra una donna ad un’altra, una madre estranea (raccontata quasi come fosse una strega) ad una madre naturale. Questo crea in lei un allontanamento dalla figura materna, ed un disturbo di comprensione del mondo femminile (anche un episodio come quello delle mestruazioni è vissuto come trauma) e che la porta a viversi una sorella al fianco, alter ego delle sue paure e oggetto delle persecuzioni della matrigna. Altra caratteristica che accomuna questa pellicola ad una tendenza generale del cinema horror orientale, è la scelta di personaggi femminili sempre più energici e partecipi, che diventano protagoniste vere dei racconti mentre gli uomini diventano distratti, assenti, preoccupati per la carriera e distanti dalla vita privata dei figli. Facendo riferimento invece alla realizzazione della pellicola, siamo di fronte ad un discreto prodotto, rarefatto e raffinato, che inchioda lo spettatore alla sedia senza niente di effettivamente nuovo, ma con un’estetica davvero rara per una pellicola di questo genere. Uso del colore ed estetica dei movimenti della m.d.p. fanno apprezzare il film, infatti, distraendo il pubblico da alcuni passaggi un po’ contorti della narrazione (il sacco che lei prende a bastonate o quando la ragazza intuisce d’essere anche la proiezione della matrigna), sfruttando le immense potenzialità del montaggio e del sonoro. Anche qui esiste comunque una tendenza narrativa sviluppatasi molto di più negli anni più recenti, fatta di un continuum vuoto e intangibile nel quale sono inseriti fotogrammi che hanno un alto potere destabilizzante ed ai quali si associa un effetto sonoro il più delle volte di livello più alto rispetto alla narrazione e comunque di natura differente da quello d’ambiente. Vale sicuramente la pena sottolineare comunque l’interpretazione dell’attrice Jung-ah Yum, la matrigna, capace di rendere il suo personaggio credibile oltre le righe. Quiete borghese disturbata, il ramo medio-alto della società sudcoreana è ad un passo da una crisi di nervi.         

 

Bucci Mario

        [email protected]