Motorpsycho!. Russ Meyer. 1965. USA.
Attori: Haji, Alex Rocco,
Stephen Oliver, Holle K. Winters
Durata: 74’
Titolo
originale: Motorpsycho
Stato della California. U.S.A. Un trio di motociclisti
aggredisce una coppia in riva ad un fiume. Poco dopo importunano una ragazza ma
l’intervento di Curry, il suo uomo, la sottrae alle offese. Il giorno dopo,
mentre lui è a curare alcuni cavalli affascinato dalle procaci intenzioni di
una bionda, il trio di balordi s’introduce nell’appartamento e violentano la
ragazza. Al ritorno a casa Curry trova già la polizia ed un’ambulanza sulla
quale la ragazza è stata caricata. Poco dopo una coppia a bordo di una jeep è
costretta a fermarsi nel deserto per aver bucato una gomma. A coglierli è il
trio di balordi che aggrediscono lui senza motivo e lo sparano
involontariamente, uccidendolo. Anche la donna, datasi alla fuga, è sparata. I
tre abbandonano le moto e s’impossessano della jeep. A trovare la scena è
Curry, che trova la donna ancora viva. I due si mettono in strada con l’auto di
Curry e poco dopo ritrovano i tre a bordo della jeep, appena fuggiti dopo aver
fatto il pieno all’auto senza pagare. Costretti a ripararsi dietro un albero
poiché quelli gli sparano addosso, Curry è morso da un serpente e la donna lo
salva succhiando via il veleno dalla gamba. Intanto il gruppo diminuisce perché
uno di loro uccide il compagno che aveva deciso di allontanarsi. Trascorsa la
notte, durante la quale Curry e la donna si amano, la mattina dopo uno dei due
della banda riesce a trovarli e prova ad abusare di lei. La ragazza riesce a
difendersi pugnalandolo. Rimessisi in strada trovano il capo, l’ultimo rimasto,
in cima ad una collina dalla quale spara con il fucile. Trovata della dinamite,
Curry riesce a farlo saltare in aria.
Film di violenza e
sensazionalismo (il morso del serpente non è nemmeno ambiguo), il cinema di
Russ Meyer si mostra in tutte le sue prospettive, lasciando intendere facili
derive a posteriori. Cinema corporeo, fatto di carne e movimenti, di battute
rafferme e dialoghi consequenziali, il tutto rappresentato da una buona
fotografia in bianco e nero ed un plastico gusto per le inquadrature (Russ
Meyer è infatti anche direttore della fotografia), a maggioranza dal basso.
Uomini che aggrediscono le donne, che ingaggiano duelli, che ascoltano la radio
distrattamente e che cavalcano motociclette nel deserto come fossero fantasmi
di vecchi banditi ai tempi del far west. Il cinema di Russ Meyer guarda le
derive e gli eccessi dell’America e ricostruisce tutto nel deserto vuoto, abbandonato
dai mitici cowboy e popolato da innocui agricoltori e procaci donne. A parte il
gusto per la caricatura e per la musica radiofonica, Russ Meyer ricorda a
tratti il Monte Hellman del western esistenziale, anche se è davvero
difficile marcare una linea di contatto tra i due. Godibile, sicuramente meno
strambo e sfilacciato di gran parte dei film che lo seguiranno. Nell’iperbolica
rappresentazione della violenza come effetto dell’americanismo, è sicuramente
in anticipo rispetto a I Selvaggi (1966) di Roger Corman ed al più
grande Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick (anche se
quest’ultimo evita la base di partenza America, sostituita con
l’Autorità).
Bucci Mario
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