The experiment. Oliver Hirschbiegel. 2000. GERMANIA.
Attori: Moritz
Bleibtreu, Christian Berkel, Oliver Stocowski, Justus Von Dohnànyi, TimoDierkes
Durata: 114’
Titolo
originale: Das experiment
Tarek, giornalista e tassinaro,
decide di partecipare ad un esperimento per la ricompensa di 4 mila marchi.
Oggetto dell’esperimento è lo studio della condizione carceraria, monitorata 24
ore su 24, al quale è neccesaria la
partecipazione di otto secondini e dodici detenuti. Selezionato dal computer
per fare la parte del detenuto, Tarek si ritrova a passare quindici giorni in
gabbia con altri due che hanno aderito all’esperimento. Dopo i primi due giorni
nei quali un po’ tutti mostrano ancora insicurezza riguardo al da farsi, le
venti cavie umane incominciano ad assimilare meglio il proprio ruolo. Motivo di
riuscita della fase d’immedesimazione è il conflitto che mota tra la
testardaggine di Tarek di fronte all’esperimento e la crescente follia
dell’ordine di Berus, rappresentante più autoritario della fascia dei secondini.
Tra i due incomincia una guerra dapprima psicologica ed infine fisica che
sfocerà in tentativi di ribellione dei detenuti e prove di forza e massima
reclusione da parte dei secondini. Perso di controllo dell’esperimento, anche i
medici saranno risucchiati in una spirale di violenza.
Film bruttino su una bella idea
che nasce da un pessimo comportamento dell’uomo: la reclusione. Motivo di
disappunto sulla riuscita di questa pellicola è proprio la sceneggiatura,
tratta dal romanzo Black box di Mario Giordano, che sfrutta i cliché dei
film e delle storie di detenuti senza apportarvi novità (nessuno cambia il
proprio carattere da quando è introdotto nell’esperimento, i personaggi
restano limitati in ciò che sono sin dall’inizio) e soprattutto rincorrendo
quella necessità emotiva, quella tensione narrativa che si mostra, sin dai
primi attriti, come falsa e innaturale. Senza un modello di riferimento, la
macchina da presa sfrutta solo le potenzialità dell’illuminazione (quasi tutta
la pellicola è girata nell’interno della prigione) e sembra dimenticarsi il
proprio ruolo all’interno del contesto narrativo. Macchinoso e non esaustivo il
duplice rapporto tra libertà e segregazione, rappresentato dalla figura della
donna che s’innamora di Tarek, un personaggio senza carattere e ruolo. Poco
risalto, infine, è dato alla black box cui fa riferimento il titolo
dell’opera dalla quale è tratto il film, quella oscura scatola che è l’immagine
della segregazione e che in realtà, nella pellicola, sembra il male minore. Due
citazioni su tutte, forse involontarie: Taxi driver (1976) di Martin
Scorsese (all’inizio del film attraverso la partecipazione all’inquadratura
delle luci della notte, oltre che al riferimento diretto al lavoro di Tarek) ed
il cinema di Kitano (davvero?) con Tarek che ferma la lama di Berus così come
Beat Takeshi ha fatto in Boiling point (1990), oltre alla conclusione
sulla spiaggia, la cui fotografia è forse il simbolo del cinema del regista
nipponico (l’immagine che sfuma sui corpi di Tarek e la ragazza seduti sulla
sabbia).
Bucci Mario
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