Recensioni

La stanza del figlio (Psicologia dell'attore)

Questo film di Moretti si presenta scabro, essenziale, al limite dell’oscenità intesa come esibizione del privato. Qui (nella stanza del figlio) la disarmante fisicità del dolore (contrizione e pianto) al lavoro produce lo strappo del sipario del palcoscenico della vita. Forse Moretti era partito cinematograficamente da Kieslowski e la sua rappresentazione minimale dell’esistenza legata al Caso; se così fosse l’ispirazione si sarà persa strada facendo perché il film non riesce mai a trascendere gli eventi che mette in scena, la quotidianità (i gesti, gli sguardi, le parole, le cose) non si traduce in metafisica né sotto il profilo contenutistico né sotto quello squisitamente linguistico. La macchina da presa si sottrae alla retorica dei sentimenti e, volendo mostrare senza dimostrare (neorealismo o piuttosto neodocumentarismo in quanto nel primo vi era comunque l’adozione di un punto di vista autoriale), priva lo spettatore del pathos della visione e quindi della condivisione degli accadimenti. Moretti non più autore ma attore. Difatti azione e reazione sono i cardini di questo film che non si preoccupa di nascondere il pianto, paradigmatica esternazione di frattura di una intima quiete emozionale e naturale conseguenza dell’ insopportabilità di una realtà disagevole, ma le dinamiche interiori ad esso collegate.

A tratti affiora alla mente Grazie per la cioccolata di Chabrol per la lucida riflessione sulla noia della vita condotta dalla classe borghese che uccide gradualmente i suoi sentimenti per il timore di mostrarli nella loro nudità; solo la morte riesce a ricordare la fragilità della condizione umana e la necessità di mostrarla.

Singolare questo sorprendente accostamento se si considera la passione per la cioccolata di Moretti. Ma anche questo è probabilmente un caso.

Singolare anche il suggerimento che lo psicanalista Moretti consiglia per liberare i pazienti e se stesso dal male di vivere: praticare lo sport che più si avvicina alla propria indole. Se si soffre l’agonismo e la competizione come nel caso di Andrea, il figlio, è più naturale essere un sub piuttosto che un tennista, se il rapporto con la gente non è positivo meglio misurare i propri limiti individuali con un sano footing, se al contrario è piacevole e stimolante immergersi nella collettività ecco che ideale può essere il basket come sport di squadra.

Al solito Nanni ci fa le scarpe (inutile rimembrare "Bianca") e ci invita , seppure in sordina e non più urlando come ne "La messa è finita", a non sfuggire la bellezza che può essere presente intorno a noi nonostante il crescente cinismo del mondo che ci circonda e che ci impedisce di esprimerci come desidereremmo (esemplare il personaggio di Stefano Accorsi).

Assolutamente centrale per cogliere lo spirito del film è la notevole caratterizzazione di Silvio Orlando e la sua voglia di aprire nuove porte (come gli rivela il suo subconscio tramite l’attività onirica) nonostante il riconoscimento sociale di un lavoro che apparentemente lo gratifica. Di qui il disagio e la traduzione/trasformazione di un malessere psicologico in un malessere fisico.

Tutti attori impotenti in questa pellicola di Moretti.

Una sola splendida (non posso che apprezzarne le doti, tutte le doti) eccezione: la figura di Laura Morante, unica della famiglia a non praticare alcuno sport perché unica spettatrice del film (vede il doppio del figlio che la sfiora in corsa, vede il figlio negli occhi di Arianna, la ragazza di cui forse era innamorato ma non ne parlava, vede la stanza del figlio con i suoi abiti e scopre le sue lettere).

Forse il film più attoriale di Moretti svela malinconicamente e soprattutto involontariamente l’intima autorialità dell’autarchico (ergo il suo stato d’animo).

Questa ultima fatica del regista di Brunico, nonostante il quasi unanime consenso di pubblico e critica, è destinata a dividere la sua filmografia e probabilmente gli stessi suoi estimatori di sempre ma è fisiologico per una pellicola che rappresenta la divisione/lacerazione (conseguentemente il dolore) di un essere umano (attore/spettatore, vivo/morto).

Basta ascoltare la voce della Caselli che canta : "insieme a te non ci sto più" e "chi se ne va che male fa".

Sasso Sergio Pio


Colpisce forte, "La stanza del figlio". Colpisce forte perché è cinema: sembra ovvio, ma non lo è in una cinematografia — quella italiana — soggiogata dagli sceneggiatori e dalle affermazioni, magari anche interessanti, che vengono messe in bocca ai personaggi. Con il risultato, didascalico, di sentire un campo/controcampo di lezioncine, visioni del mondo, propositi velleitari. Che lasciano il tempo che trovano.

Non lasciano il tempo che trovano, invece, le parole e gli atti che investono — letteralmente — lo psicoanalista Sermonti e la sua famiglia. L’incidente mortale del figlio, e prima ancora l’incomprensibile furtarello di un minerale dal laboratorio scolastico. Senza motivo particolare. Per scherzo; poi lo scherzo diventa non diciamo tragico, ma più serio, perché il reperto si rompe in modo stupido. Si misura in quel momento, cioè quasi all’inizio, la fragilità di una famiglia che invece parrebbe ben carrozzata. Si scopre al momento del confronto fra ragazzi e genitori; estranei. Anche per uno "scrutatore d’anime". Il film è attuale, è morale, non è moralistico. Attraversa le insidie delle ovvietà, che sentiamo in questi giorni a proposito degli adolescenti inquieti. Aggregati umani che paiono intangibili, forti, benestanti e che si scoprono con i piedi d’argilla. Così è per la famiglia di Sermonti. La morte del figlio anziché unirla, catalizza i moti centrifughi e le tensioni a prendere ognuno la propria strada: la moglie, alla ricerca della "fidanzatina" di una sera al campeggio; la sorella del ragazzo, che innesca giocando a basket una rissa degna dell’hockey; lui, Moretti, deve rinunciare a indagare le anime degli altri. Cioè a distribuire non dico certezze, ma quello che il paziente si aspetta. Cioè qualcuno che accetta il gioco, il teatrino di farsi carico di un problema suo.

Non c’è spazio per questo, lo sentiamo dire tutti i giorni e in queste ultime settimane in particolare: gente che non comunica, genitori che non ascoltano i figli; figli che pensano solo al momento crepuscolare del fine settimana, al mondo parallelo dell’alto volume e dell’alta velocità. È proprio così: c’è distanza fra le persone, fra la razionalità dell’impostazione di una vita e il suo svolgersi. La differenza tra il film e i commentatori dei fatti di sangue, esperti espertissimi e tuttologi, è che i secondi deprecano questo stato di cose (che certo non è bello), senza dare ricette per superarlo. Il film di Moretti, invece, con una certa, stupefacente serenità (nonostante la morte, nonostante la crisi di coppia e il lavoro che si disfa) dice che questo stato di cose è insito nella nostra natura. Non ci sappiamo spiegare? Certo. Siamo distanti? Certo.

Non è rinunciatario questo film, non è fatalista. Ammettere che questo è lo stato dell’arte significa ammettere una buona volta che abbiamo dei limiti. E ammettere i limiti umani non è svalutare l’uomo, anzi è farlo grande. Il delirio di onnipotenza svaluta l’uomo. L’accanimento terapeutico, lo scientismo, la ricerca a ogni costo, il dominio sul mondo "perché si può fare" e dunque si deve fare. Tutto questo svaluta l’uomo. Lo rivaluta la capacità di cogliere nell’inaspettato il segnale che il corso delle cose può cambiare, questo sì e questo succede verso la fine del film.

Il film è anche cinema, come si diceva all’inizio. È un elastico che si dilata e si rapprende, accenna alla narrazione distesa e subito dopo si contrae, al pari dei rivolgimenti dei visceri dei protagonisti. Si affida ora al dialogo, ora a una panoramica; ora al confronto di caratteri oltre all’egocentrismo soggettivo-oggettivo del protagonista che raffigura se stesso fantoccio tra i fantocci del luna park; ora all’esposizione di idee (che non è proibita, se serve a fare cinema) ora alle luminescenze ora al sudore del jogging, del basket, delle gabbie da far ruotare alle giostre.

Moretti sceglie; cioè taglia e ricompone; cioè esercita il découpage; isola il dettaglio per rafforzare il sentimento; procede per ellissi, mostra la parte per il tutto (fino a esagerare: la chiusura della bara, già segnalata come sequenza-culto da alcuni giornali, è eccessivo omaggio alla violenza dei suoni di Bresson); stringe e appiattisce gli interni, gli esterni sono di fuga e di movimento; fino alla fuga finale, notturna. Fuga per ritrovarsi, per accompagnare degli affetti che non sono i nostri, ma che si riconoscono negli altri e di cui si sa godere. Altro porto, altro mare. Fuga in coda di pesce, climax discendente, tensione che si stempera. Ma è tutto necessario, in questo film: c’è un tempo per colpire e uno per leccarsi le ferite.

Alberto Corsani


La stanza del figlio
Regia: Nanni Moretti
Sceneggiatura: Nanni Moretti, Linda Ferri, Heidrun Schleef
Fotografia: Giuseppe Lanci
Musica: Nicola Piovani
Montaggio: Esmeralda Calabria
Scenografia: Giancarlo Basili
Interpreti: Nanni Moretti, Laura Morante, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Silvio Orlando, Stefano Accorsi, Claudio Della Seta
Produzione: Nanni Moretti, Angelo Barbagallo, per Sacher Film/Bac Films-Studio Canal Plus/Rai Cinema/Tele +
Origine: Italia, 2001, 96 min.

Il diario intimo, l'introspezione psicologica, sono elementi con i quali costruire l'autonomia di pensiero. Per Nanni Moretti il cinema, girare e interpretare film, ha sempre coinciso con una prassi di vita, che è politica e filosofica. Se tuttavia la politica corrisponde a un pensiero che diventa facilmente norma, regola di condotta, per la filosofia, ed in particolare l'esplorazione delle domande esistenziali è molto più difficile fornire risposte sicure. La stanza del figlio è il primo film di Moretti totalmente in ascolto, alla ricerca di segni per tentare una minima decifrazione della misteriosa dimensione umana. E tutto il film ruota intorno alla condizione-pensiero dello psicanalista Giovanni.
La prima sequenza già ci mostra una situazione abbastanza remissiva di attenzione all'"esterno". Giovanni è seduto in un bar, poi un gruppo di Hàre Krìshna (è già un segno di ideologia, posizione psicologica forte dinanzi all'esistenza) attrae il suo interesse. Come in una sorta di ipnosi, trascinato fuori dal bar, li segue, li avvicina, quasi che il gesto di avvicinarsi corrisponda al raggiungimento di uno spazio più idoneo alla scoperta di un dato segreto. Gli Hàre Krìshna continuano a cantare e ballare gioiosi, poi la sequenza s'interrompe bruscamente, lo stesso gesto repentino d'interpunzione che caratterizzerà l'intero film.
Il lavoro di Giovanni consiste nell'ascoltare i pazienti, ponendosi alle loro spalle, per dare tutto il peso possibile alle sole parole e non farsi condizionare dall'espressione dei volti. Spesso le reazioni dei suoi clienti sono vivissime al punto da trasformarsi in collera, mentre lui ostenta completa serenità.
Non cambia l'atteggiamento in famiglia. Insieme alla moglie lo vediamo discretamente ascoltare la figlia Irene e il suo ragazzo che si trovano nel salotto adiacente dell'abitazione. E perfino il riferimento ai luoghi – la stanza del titolo denota l'universo particolare del figlio - è importante per scorgere la disposizione adatta per ascoltare meglio e più a fondo. Come i segni dei "malati" di mente si accumulano su quella specie di diario di appunti, che diventa poi troppo intimo, così nella vita di Giovanni altri segni fanno scattare la sua scrupolosa e vigile attenzione. Lo dimostra l'esemplare episodio del misterioso furto – insieme alla successiva scoperta del rapporto epistolare di Andrea con Arianna -, che altro non è che la rivelazione dell'ottusità dei sensi, della loro sostanziale inefficacia. Ogni deduzione sembra smarrirsi di fronte alle decine di possibilità tra le quali s'insidia quella vera. Andrea ha davvero rubato il minerale?
La condizione di ascolto è messa a dura prova dall'evento trauma: la morte di Andrea. È proprio in questo caso che diventa fatalmente rilevante la disponibilità di Giovanni verso il mondo esterno, presumibilmente colpevole perché dalla disponibilità in qualche modo è dipesa la morte del figlio. Ha ascoltato un paziente, anzi peggio, è corso ad ascoltarlo, ma nel frattempo non ha ascoltato altre voci, quella della moglie "devi proprio andare?", voci che dopo il triste evento si ripresentano ossessivamente alla memoria senza che egli possa (ri)costruirle razionalmente e decifrarle. Doveva andare lo stesso a fare jogging con Andrea? O rimandare l'appuntamento al giorno dopo? E tutto questo avrebbe cambiato il destino del figlio? Forse sì, forse no, non lo sapremo mai.
L'elaborazione del lutto, a partire anche da uno scacco della condizione puntigliosa d'ascolto descritta, rappresenta la maturità di un autore, oltre che umana, cinematografica.
Intanto c'è un'assoluta concentrazione filmica sul dopo. L'evento drammatico rimane nel fuori campo, semplicemente suggerito da un lievissimo movimento di montaggio alternato.
La cerimonia funebre è, invece, descritta con numerosi dettagli. Prima la terribile sosta al pronto soccorso, l'arrivo degli amici e parenti, una lunga sequenza nella camera ardente in cui Andrea giace nella bara di fronte ai familiari, il rito della chiusura del feretro, con quelle immagini-suoni delle viti che sprofondano nel legno che rimangono scolpite e risuonano, un effetto pregevole di raccordo, nell'inquadratura successiva che ritrae Giovanni già a casa.
Dicevamo maturità. Certo a Moretti non interessa tanto la drammaturgia come effetto anche spettacolare (nel senso più intelligente possibile o almeno tragico). In effetti, il film prosegue, nella sua parte forse più difficile nel tentare di tracciare i segni del caos. Era arduo farlo e probabilmente non si è riusciti fino in fondo ad elaborare coralmente il lutto. Benché le prospettive della moglie Paola e della figlia Irene siano delineate, la posizione di Giovanni rimane fortemente centrale e confermativa della soluzione del film. Come se in fondo i gesti della madre e della figlia non corrispondessero in pieno a una risposta al dolore. O meglio quella di Giovanni è costruita meglio poiché corrisponde più che ad un'evoluzione sentimentale del dolore a un'operazione del pensiero che diventa atto di vita. Così la decisione di abbandonare a tempo indefinito il lavoro, o le false piste della ricerca di una risposta religiosa – la messa e quella frase del prete "Il padrone di casa non sa quando verranno i ladri" lo irritano, ma lo sospingono ineluttabilmente in una direzione precisa - o i dubbi per un incidente causato dal malfunzionamento degli strumenti di immersione subacquea.
C'è una sequenza bellissima che sembra rimettere tutto in chiaro. Quella in cui Giovanni si siede nella cucina e mangia un pezzo di pane e del formaggio (come la Nutella). Forse da lì cambia tutto. Anche la sua diffidenza verso le richieste della moglie a conoscere Arianna. La vita davvero non può esser fermata, così i protagonisti della storia s'incamminano felici e sapienti verso altre direzioni. Camminano insieme e separati in quel selciato bianco e polveroso che è già l'arrivo di un singolare percorso di accompagnamento.

Andrea Caramanna

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