HyperDark - Ipertesti

HyperDark
Ipertesti
<<< ritorna all'in-tre-ccio

Solaris
«Certe volte mi arriva l'eco di una strofa che cantavamo insieme per gioco. Comincia così: in questa tomba oscura / lasciami riposar... ».
(Luigi Pintor, La signora Kirghgessner, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 13)


Solaris
(Solaris, Urss 2002; 155 minuti) Regia: Andrei Tarkovskij; soggetto: Fridrikh Gorenshtein e Andrei Tarkovsky dal romanzo di Stanislas Lem; sceneggiatura: Oskar Röhler; fotografia: Vadim Yusov; costumi: Yelena Fomina; musica: Eduard Artemyev, Vyacheslav Ovchinnikov ; montaggio: Lyudmila Feiginova, Nina Marcus (Le film a fait l'objet d'un montage, destiné aux distributeurs américains, d'une durée de 2h12); produzione: Creative Unit of Writers & Cinema workers, Mosfilm, Unit Four. Interpreti e personaggi: Natalya Bondarchuk (Khari), Donatas Banionis (Kris Kelvin), Jüri Järvet (Dr. Snauth), Vladislav Dvorzhetsky (Berton), Nikolai Grinko (le père de Kelvin), Anatoli Solonitsyn (Dr. Sartorius), Sos Sarkisyan (Dr. Gibaryan), Olga Barnet (la mère). Premi: Grand Prix du jury de Cannes 1972, nominé pour la Palme d'Or. Distribuzione: Empresa Hispanoamericana de Video, Magna, Sci-Fi Pictures Inc./Magna Distribution Corp., Sovexportfilm. Date di uscita: 20 Marzo 1972 (Union Soviétique), Maggio 1972 (France - Festival de Cannes), 24 Agosto 1973 (Finlande), 1979 (USA), République Tchèque (30 gennaio 2001, nouveau montage), 11 Settembre 2001 (DVD russe).

Solaris di Tarkovsky

Cruccio continuo per il suo autore, Solaris continua a interrogarci anche ora che la San Paolo ha mandato in libreria una versione integrale dell'opera, che in Italia era giunta scempiata di circa mezz'ora. Cruccio nella fase realizzativa: Tarkovskij se ne lagna ripetute volte nei suoi diari, pubblicati l'anno scorso a cura del figlio Andrej A. con il titolo enfatico di Martirologio (Ed. della Meridiana), cruccio durante il montaggio e perplessità dell'autore a molti anni di distanza. In alcune note dell'estate 1980, Tarkovskij scorge nel film delle lungaggini e i limiti nella recitazione. Ma gli sembrava di ricordarlo più deludente...
Il film inquieta innanzitutto per l'epoca in cui viene realizzato. Considerato in maniera sbrigativa come (tentativo di) risposta a 2001 di Kubrick, Solaris presenta enfatizzati in questa versione più completa gli scompensi che ne costituiscono al tempo stesso il fascino: la scollatura, soprattutto, tra la poesia del paesaggio - il terreno su cui Tarkovskij si muove meglio, lungo tutta la sua carriera - e la riflessione filosofica, in massima parte affidata alle discussioni in bianco e nero da parte dei funzionari, dei militari, degli esperti di molte professioni di fronte alle "stranezze" che avvengono sulla piattaforma orbitante. Lo psicologo Kelvin partirà alla volta della base, e troverà che i tecnici che vi lavorano stanno perdendo la testa, e che i ricordi - anche i suoi - si materializzano...


Sono soprattutto dialoghi, dunque, a occupare quei circa 30', quasi tutti all'inizio, in cui il Vhs si adegua all'originale. Dottrina, prosaicità. Che però viene rotta, a più riprese, dall'irrompere dell'emotività - come già appariva su più larga scala nella tempistica della versione ridotta - e soprattutto di un paesaggio almeno triplice: nella stazione orbitante si materializzano i ricordi (e quindi la nostalgia per la terra, lo stagno, l'erba, i cavalli, ecc.), che sono però anche evocati dai dialoghi iniziali nella dacia, prima dell'inizio della missione di Kelvin. Ma soprattutto, la prosaicità è inframmezzata alle discussioni e alla campagna, irrompe il viaggio in auto, e con esso la metropoli.


È ancora fantascienza? O siamo già entrati - come con 2001 - nella post-SF? Più probabile che - come con 2001 - siamo in una fase di passaggio. Esaurita la stagione classica al limite del B-movie anni cinquanta, quella che è arrivata a produrre Viaggio allucinante, e L'invasione degli ultracorpi, è persa per sempre la possibilità di dare corpo a un universo spiegabile in se stesso; quello di quei film era un universo minacciato dall'aggressione di un nemico grottesco quanto temibile; un mondo, comunque, che si chiudeva a riccio, che sviluppava una propria comunione d'intenti di fronte all'Impero del Male, che si mostrava compatto e decifrabile, anche nell'ingenuità (quanto sarà lontana da ciò, pochi anni dopo - 1963 - la Bodega Bay di Uccelli, dove non emerge la minima disponibilità a cercare una unità d'azione e la claustrofobia informa tutto il film..., e quanto più avanti, dunque, vedeva Hitchcock).


Nel viaggio che dovrebbe servire ad approfondire la discussione su quello che sta succedendo su Solaris, Berton prova ad aggiungere elementi, ma mentre parla, su quell'auto, compie come un viaggio nei meandri della Terra, che non sono terra come in campagna. Sono strade a scorrimento veloce, doppie corsie, viadotti e gallerie. Una tangenziale o un boulevard périphérique, che non si sa se assomigli di più a Alphaville oppure alla Parigi sventrata di Due o tre cose che so di lei. Lunghi tunnel segnati dalla convergenza (è una legge ottico-prospettica) dei fari posti dove la parete si fa "volta" della galleria (e che quindi in realtà sarebbero paralleli nella loro disposizione), attraversamenti, squarci di luce e profondità dello spazio mentale...

È un Tarkovskij che sfocia nell'allucinato di una visione notturna dei fari impazziti di tutta una città; sfarfallio, realtà, una specie di Défense ma segnata dalle automobili del socialismo reale, che danno un tocco ancora maggiore di inverosimile; solo il relitto sulla spiaggia dello Stato delle cose (dove si immagina di girare il film I sopravvissuti) si porrà in eloquente sintonia. Una dimensione che il regista troverà con più compiutezza in Stalker, dove tuttavia, di nuovo, la dimensione del dibattito di idee si fa opprimente. Meglio il paesaggio.

Importa qui che Tarkovskij come Kubrick, tra la fine del decennio sessanta e l'inizio del seguente, nel terreno della SF sono spaesati e producono grandi film eterogenei al loro interno, tra formalizzazione, discussione, preamboli ("L'alba dell'uomo") inessenziali e spaesanti, e affascinanti scadimenti della tensione narrativa: il bello è che Kubrick, con i suoi valzer, smorza la suspence di propria intenzione; essa sfugge invece a Tarkovskij, per eccesso di contenuti da schierare in campo. Il risultato è straniante in entrambi i casi, e dimostra come in quell'epoca si annunciasse una fase in cui ben poco si poteva dire per spiegare il mondo. Poi il cinema ha ricominciato, negli Ottanta, invertendo di nuovo la rotta, e parlandoci di mondi chiusissimi, implacabili nella loro astrusa ma confacente organizzazione (Blade Runner, Fuga da New York fino a Minority Report). Corsi e ricorsi, intanto cambiamo anche noi...



Alberto Corsani

And Death Shall Have No Dominion








Good Bye Lenin!


Solaris

(1972; 165 minuti)

Regia: Andrei Tarkovski; sceneggiatura: Andrei Tarkovski, Fridrikh Gorentchen; fotografia: Vadim Youssov; musica: Eduard Artemyev, Vyacheslav Ovchinnikov; montaggio: Lyudmilla Feiginova, Nina Marcus; produzione: Creative Unit of Writers & Cinema workers, Mosfilm, Unit Four. Interpreti: Natalya Bondarchuk (Khari), Donatas Banionis (Kris Kelvin) Jüri Järvet (Dr. Snauth), Vladislav Dvorzhetsky (Berton), Nikolai Grinko (Kelvin's father), Anatoli Solonitsyn (Dr. Sartorius)

Quelle che seguono sono poche note vergate a caldo dopo una visione del film che risale ai primi anni ottanta da una Paola che non è più così e legge i film con vent'anni di ulteriori visioni negli occhi, ma soprattutto vent'anni di memorie di persone e case avite (nostrane cascine più che dacie esotiche) che nel frattempo sono state risucchiate nel gorgo e vivono ormai solo più nelle sue proiezioni mnemoniche.
Proprio in questo risiede il valore di quella descrizione che proviene dal passato, come se anche quella fosse una emersione inconscia, iperreale: un racconto del passato, dimenticato che si ripropone ossessivo come suggerisce quell'esordio, lapidario, eppure rassegnato all'eterno ritorno del'uguale: "Struttura ad anello..."


Struttura ad anello: il protagonista immerso nella campagna della dacia ritornerà a immergersi in quella dell'oceano di Solaris (isola che è dentro l'uomo, ritorno in se stessi, al proprio inconscio). Sequenze analoghe a quelle di Lo specchio: sogno in cui compare la madre. Ripetizione dei soliti elementi: pioggia catartica e purificatrice, fuoco che brucia il passato, rappresentando un oblio che è tentativo di rimuovere la memoria di ciò che si è. Un viaggio verso la conoscenza interiore, verso l'inconscio che partorisce i propri simulacri con cui bisogna convivere o stringere un rapporto emotivo.

1.l'amico che parla attraverso il video racconta le ragioni del suo suicidio: «La morte è solo l'inizio, non è follia... sono io il giudice di me stesso, è qualcosa che è nato dalla mia coscienza...» e lei dirà: «È morto di vergogna, sentimento che salva l'uomo».
2.Il dottore è tornato alla sua infanzia, regredire alla fase uterina (foto dei suoi tre bambini), quando lancia la palla torna al suo archetipo bambino: è cosciente di ciò che avviene, non sa come comportarsi. Collaborare con la mente pensante o distruggerla?
3.Lo scienziato "Sartorius" è scettico, vuole eliminare queste concrezioni della mente pensante, eliminare per annichilimento. È la ragione, la fede nel positivismo e nell'evoluzione tecnico-scientifica (anche lui ha un mostro... una creatura informe, un nano): «Dovere verso la verità scientifica» è la sola: infatti non capisce il bisogno che ha l'amico suicidato di farsi seppellire sulla terra.
4.Le presenze dell'inconscio sono simulacri uguali a quelli reali: «esseri umani, vulnerabili, che si possono ferire...» sono capaci di soffrire, provano emozioni, non sono dotati di ricordi. «Mi sento strana come se avessi dimenticato qualcosa». La moglie si riconosce nella foto e si fa raccontare i fatti.

Sogni a colori e in b/n, quando vuole difendersi dai ricordi.
All'inizio ricorda l'atmosfera e i colori irreali dello Stalker.
L'incontro padre-figlio: la madre compare nella foto in casa e poi accanto al falò La conoscenza è morale, è l'uomo che decide della moralità (etica soggettiva applicata a oggettività) Tentativi di Kris (lo psicologo) di liberarsi della replica dela madre, poi capisce che bisogna convivere con i mostri che non sono altro da sé (operazioni di lutto). L'oceano di Solaris crea esseri fatti di neutrini, non di atomi: il fantasma si autentifica come tale, sa di essere la copia ma questo non importa, perché la donna è coscienza e l'uomo vive finché lui lo vorrà. Lei rifarà il gesto come nella realtà perché è ridiventata essere umano, ripetizione delle stesse cose (accomuna uomo-replicante).
In b/n avviene l'incontro con la madre (già visto nel filmino a colori nella danza delle stagioni, avvicendarsi del tempo sottolineato dalla musica di Bach).
Specchio: dove il fantasma si guarda.

Paola Tarino






Solaris
(Solaris; 2002; 99 minuti)
Regia: Steven Soderbergh; soggetto: dal romanzo omonimo di Stanislaw Lem; sceneggiatura: Steven Soderbergh; fotografia: Steven Soderbergh (alias Peter Andrews); scenografia: Kristen Toscano Messina; costumi: Milena Canonero; musica: Cliff Martinez; montaggio: Mary Ann Bernard; produzione: 20th Century Fox, Lightstorm Entertainment, Section Eight Ltd., USA Films.
Interpreti e personaggi: George Clooney (Chris Kelvin), Natascha McElhone (Rheya Kelvin), Viola Davis (I, Helen Gordon), Jeremy Davies (Snow), Ulrich Tukur (Dr. Gibarian), John Cho (DBA Emissary #1), Morgan Rusler (DBA Emissary #2), Shane Skelton (Gibarian's Son), Donna Kimball (Mrs. Gibarian), Michael Ensign (Friend #1), Elpidia Carrillo (Friend #2), Kent Faulcon (Patient #1, as Kent D. Faulcon), Lauren Cohn (Patient #2, as Lauren M. Cohn)


The Map of Love, Death and Entrances,
(Dylan Thomas)

Soderbergh rispetta la struttura ad anello, rielaborandola però in un modo che annulla qualsiasi residua identità umana: stavolta l'anello infatti ribalta la prospettiva rispetto all'inizio. In questo modo anche la religiosità non ha ragione di essere, ma dall'altro lato impedisce anche un ritorno in sé, perché si è già altro o comunque in parte si è stati contaminati... e la ferita si richiude, annullando l'intero tempo, che coincide con la narrazione. Lasciando soltanto una allucinante certezza: la morte è solo un passaggio in un altro stato nel processo di vita e morte regolato dall'amore.


Ecco, forse è questo eccessivo spazio riservato all'amore come categoria dello spirito e non come passionale 'amour fou' da cui non ci si può liberare quale invece era la ossessione nella prima riduzione del romanzo; qui i fluidi rosa non riescono a diluire il gelido hi-tech del design, che nell'originale era reso opaco dal disagio, da quella stessa malattia dell'Essere che irradiava dalla 'Zona' di Stalker e si trasformava in una sorta di disease contagioso, un morbo della psiche, un'affezione folle, espressa anche - come risultato - dal desiderio di abbarbicarsi a quel replicante di donna, che in Soderbergh invece illude come un simulacro di poter proseguire la storia di un amore interrotto dal suicidio, ma come punto di partenza senza il fou di quell'amour, ripetuto fino all'ossessione dello spettatore nella riproposta colpevole della memoria di quel gesto estremo della rimpianta moglie; in quel modo va sperimentando l'appiattimento del tempo in un eterno presente, che impedisce al tempo di proseguire, congelato in quell'hi-tech appunto lucido e opaco a un tempo, da cui si è generato quell'ambiente.


Ebbene, proprio il fatto che il contorno non imputridisce, impedisce a Chris di essere morto, come capita invece nel Dead Man di Jarmusch o al Malcolm Crowe del Sesto senso di Shyamalan o nella Pura formalità di Polanski-Tornatore, perché su quelle superfici il tempo non riesce più a scorrere, le ferite si rimarginano (potere del linguaggio rispetto a quello che è l'assunto del film) in quanto quel secondo non è mai passato ed è destinato a rimanere eterno, fissando un ricordo con dentro il suo rammemorante, non lasciando nemmeno la parvenza di una scelta come in Lulu on the bridge: quando il tempo non scorre non sancisce la morte, non può registrarla, perché solo nel confronto tra quando non era presente e da allora in avanti la morte può esistere. Questa maggiore profondità rispetto all'esplicitazione didattica inscenata dalla sceneggiatura, si rivela in modo più sopportabile che nel testo o dalle apparizioni (ricopiate senza fantasia non solo dal primo modello), da quell'infinità di toni di grigio che finiscono con l'uniformare tutto, perché ormai quell'uomo in tuta fa parte di quell'ambiente, si confonde in esso. Per questo manca quello che più avevamo apprezzato in Tarkovski: il languore della Nostalghia (nel senso etimologico di dolore del ritorno laddove si sa che non c'è più quello che era familiare e rassicurante affetto), al suo posto si sostituisce la coazione a ripetere fino a far diventare il film stesso il clone di se stesso, essendo già un replicante di un altro. Materializzazione ipnotica diventa un sinonimo di cinema, tornando a Sesso bugie e videotape, con lo stesso quantitativo di passione o di disperazione umana: zero.


L'altro aspetto coinvolge i replicanti, o meglio la loro memoria: qui più che in Tarkovskij si pone il problema di recuperare una memoria di eventi mai vissuti, in modo più determinato di Blade Runner, con la consapevolezza che le immagini non sono che ulteriori duplicati e che la stessa reiterazione di atti suicidi non è che rappresentazione, ma rimane la folle speranza che in una piega di quelle "realtà" possa nascondersi il passaggio all'effettiva esistenza... ma forse è il processo di falsificazione perseguito in ognuno dei film eterogenei del regista, che finisce con l'avere la meglio, azzerando anche la narrazione fino a non far capitare nulla, se non i flussi fluidi al di là del finestrino. Ce n'è abbastanza per impazzire... e infatti l'altra componente che emerge è la singola follia di tutti gli individui coinvolti nell'intreccio: e quindi l'impossibilità di interagire con gli altri vivendo ciascuno in una sua monade personale insondabile e inattaccabile dagli altri, in particolare il mondo di Snow è ammantato di questa follia, anche esagerata, ma inscenata appositamente perché si trasmetta agli altri.


Solo che né Tarkovskij, troppo annodato nei suoi retaggi mistici, né Soderbergh, ammaliato dalla seduzione del simulacro succeduto alle sirene postmoderne (ma senza arrivare ad Alain Allais), sono stati in grado di fare un passo in avanti rispetto ai soliti punti di vista: non sono passati a guardare dalla parte dell'Altro, non solo terreno di coltura di Levinas. Saramago a pagina 155 del suo ultimo capolavoro (L'uomo duplicato, Einaudi, Torino 2002) si chiede chi è il duplicato di chi?, ovvero in realtà pone l'unica domanda veramente pirandelliana della vicenda: «Chi è l'originale?». Eppure Soderbergh ci era andato vicino a porre la questione che a pagina 158 del romanzo del portoghese si esplicita con evidenza e cioè: «Le capiterà la stessa cosa che capita a me, ogni volta che si guarderà in uno specchio non avrà mai la certezza se ciò che sta vedendo è la sua immagine virtuale, o la mia immagine reale». Eppure gli addentellati tra film e romanzo non si fermano qui, Soderbergh ha scelto non a caso di contrastare la luce azzurrina della base spaziale con quel rosa esterno aurorale che coincide in maniera inquietante con il "chiarore rosato" di pagina 164 del libro del premio nobel, mentre un ulteriore aggancio a un altro convitato di pietra di questo consorzio di fantascienza che non è Science Fiction autentica (Kubrick) trova nella pagina successiva una conferma alle splendide sequenze in cui Nicole Kidman si lascia andare alle sue fantasie erotiche in Eyes Wide Shut, che erano già conturbanti e destabilizzanti in Traumnovelle : «Per quale ragione lei, che è stata tanto decisa nello svegliarsi, ora si comporta come se il sogno l'avesse presa di nuovo fra le braccia e la cullasse dolcemente». La soluzione prospettata dal romanzo inventa una terza posizione, una figura di mezzo (la dama dello specchio dantesca o l'immagine speculare di Diana cacciatrice che riflettendosi nello stagno si può concedere all'umano Atteone, come descritto da Klossowsky in Il Bagno di Diana) che consente il passaggio tra un essere e l'altro: in Tarkovskij la proiezione all'esterno dei ricordi e in Soderbergh il congelamento rappresentano la stessa funzione di passaggio: dopo quelli si può sancire il fatto che si è diventati altro da quello che si era all'inizio, ovvero nel libro di Saramago, Daniel Santa Clara, l'eteronimo dell'attore Antonio Claro, uguale simulacro (due volte in quanto attore) del professore di storia Tertulliano Máximo Afonso, è la figura di mezzo che consente il passaggio tra i due, magari dopo aver reso frattali e pixels il volto di Clooney.


La Sf è usata nello stesso modo di Good Bye Lenin, nonostante le apparenze possano far pensare al contrario.

Adriano Boano