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Good Bye Lenin
Confronto tra due altri spaesamenti,
due film agli antipodi ma parenti
delle realtà del film di Becker

Hanna Flanders
(Die Unberührbare, 2000; 100 minuti) Regia: Oskar Röhler; soggetto: dalla vita della scrittrice Gisela Elsner, madre del regista; sceneggiatura: Oskar Röhler; fotografia: Hagen Bogdanski; scenografia: Birgit Kniep; costumi: Tabea Braun; musica: Martin Todsharow; montaggio: Isabel Meier; produzione: Distant Dreams, Geyer Werke Berlin, Zweites Deutsches Fernsehen; Distribuzione: Key Films. Interpreti e personaggi: Hannelore Elsner (Hanna Flanders), Vadim Glowna (Bruno), Tonio Arango (Ronald), Michael Gwisdek (Joachim), Bernd Stempel (Dieter), Birgit Stein (Boutique-Inhaberin), Jasmin Tabatabai (Meret), Charles Regnier (Hannas Vater), Helga Göhring (Hannas Mutter), Lars Rudolph (Viktor), Claudia Geisler (Carmen), Catherine Flemming (Isabelle), Faroque Khan (Ägypter), Nina Petri (Grete)

Hanna Flanders

Un film sulla menzogna che la ribalta alla fine lanciandosi in una commovente utopia composta da un montaggio giornalistico addirittura credibile di quello che sarebbe potuto essere il socialismo se non fosse stato affidato alle mani sbagliate. Il figlio mente alla madre a fin di bene dopo la caduta del muro, mentre lei lo ha fatto prima, dipingendo un padre fedifrago per coprire la propria viltà, ma anche per trovare un modo per sopravvivere negli angusti spazi agibili in regime autoritario.
Il criterio che sottende a tutto il film di Becker affiora in un oggetto che è troppo evidente per risultare inosservato e che l'uso del classico campo/controcampo (virus del montaggio quasi inesistente nell'odissea per una sola persona di Hanna Flanders) esaspera fino a renderlo pulsante e vera immagine-affezione: la tazza (di evidente fattura occidentale) con lo smiley sorridente da un lato, quello del medico, corrucciato dall'altra parte, sul lato dei parenti che ricevono le ferali notizie. L'intero film oscilla tra comico e tragico, tra una parte che diventa depositaria di nuovo potere e una che continua a essere sottomessa, ma soprattutto è l'intrusione dei messaggi affidati agli oggetti occidentali: la tazza, ma anche lo striscione della coca-cola si sovrappongono alla memoria dei Sabbiolini e dei poveri cetrioli.

Hanna Flanders

Invece Hanna Flanders deposita il senso nei microfoni degli innumerevoli telefoni che inchiodano la scrittrice alla impossibilità di comunicare agli altri il suo disagio, la mancanza di un interlocutore, sempre cercato e quasi mai trovato e anche in quei casi insoddisfacente: l'attenzione viene catalizzata dal microfono, perché non esce nulla di lì e l'inquadratura non può evolvere in un'altra, perché appunto non esiste l'alternativa: l'intera azione si svolge in un luogo e in un tempo la cui situazione non è riconosciuta dalla protagonista e quindi non esiste, è consentita solo talvolta una emergenza di localizzazioni che confondono ancora di più la donna, sottraendo ogni volta qualche elemento anche scenografico. Un dato che proviene dala tradizione borghese della famiglia, borghesi che abitano una casa sontuosa e senza spazi liberi per affetti, che trovano invece cittadinanza nel bagno e nella cucina angusta di Becker, che non significa sobrietà, come è invece l'estetica di Röhler.

Hanna Flanders

Di nuovo una donna al centro di Berlin Alexanderplatz; di nuovo un mondo sbriciolato intorno a lei e di nuovo un figlio, ma questa volta rispetto a Hanna Flanders, la pietas di un giovane positivo e pieno di iniziative e non il rifiuto del figlio ex-tossico con turbe è il cardine su cui si fonda non una tragedia che si configura come odissea - lento riconoscimento di luoghi e forme idealizzate e che si presentano invece come squallide inabitabili unità di solitudine, un incubo popolato da ex-amici o mostri nazionalpopolari. A questo proposito emblematica è la sequenza nel bar dove i festeggiamenti ripresi con un obiettivo che evidenzia i tratti deformandoli per vicinanza è straziante, perché pone la scrittrice di fronte a una realtà che lei non ha mai descritto in queste forme e che si è sempre negata, ottenendo un effetto di spaesamento e di annebbiamento etilico, altro modo di introdurre il gioco di entrambi i film che sembrano divertirsi a dipingere realtà che risultano tutte ingannevoli e impossibili da percepire se non creandosi uno schermo fatto di rappresentazione linguistica.

Hanna Flanders

Non una tragedia, bensì una commedia attraverso la quale traspare l'evocazione di un mondo perduto senza rimpianto, se non per quello che poteva essere e che vive nel film inventato dei notiziari magicamente assemblati da un istrionico gusto dello sberleffo non riconoscibile dal potere che mette in scena «notiziari tutti uguali», contravvenendo a quello che ci si potrebbe attendere da un'esposizione di attualità, nel gran finale permeati di un'idea di socialismo utopica e condivisibile, mescolati al Sandmenschen dell'immaginario infantile di tanti ragazzini ex ddr che ora non sanno bene cosa sognare, mentre per Hanna Flanders era stato un incubo il risveglio dall'ubriacatura ideologica che in Good Bye Lenin è fatta di oggetti che riempiono lo schermo con la loro inutilità, mobili che ingombrano strade e tornano in casa, vestiti e retaggi divenuti da un giorno all'altro mercanzia da mercatino delle pulci, ricorrenti come residui monumenti di DDR molto più di quella statua volante che indica impazzita dislocati soli di avvenire ormai passati, denaro che riprende il suo status di carta straccia in un andamento fluttuante di scomparsa, riemersione e sanzione finale di cancellazione derivata da nuovi "valori"; tutti i prodotti si affastellano sullo schermo come residui di un naufragio.

Good Bye Lenin!
Hanna Flanders

Quegli stessi oggetti in Hanna Flanders agiscono per sottrazione e azzeramento di "colori" fino a che anche il tempo e gli orologi sono annullati. Eppure sono lo stesso film, o meglio la materia è la stessa: la fine di un'ubriacatura totalitaria collettiva, che pone al centro le donne, entrambe coinvolte; allora, dove si nasconde la differenza che li rende apparentemente opposti, ma apparentati? forse nell'ironia: in un caso la tragedia è totale e la donna è travolta negli affetti (il figlio drogato la rifiuta nella fiction, salvo poi realizzare il film e ritagliarsi un ruolo senza indulgenze: un figlio abbandonato a tre anni da Gisele Elsner nel film diretto da Röhler, e non dal padre come nel film di Becker), nelle convinzioni (ma la "compagna" che saluta frastornata nel tramonto la statua di Lenin trasportata via è altrettanto lacerata e spaesata). In entrambi i casi c'è l'esplicita visualizzazione del tentativo di bloccare il tempo, di farlo scorrere al contrario - magari agendo direttamente sugli orologi - e tutt'e due le pellicole terminano con l'estrema accettazione della morte come simbolica dimostrazione del progresso del tempo, che spazza via tutto, a cominciare da Alexanderplatz e dai quartieri operai dell'est, investiti dalla pioggia di mattoni del "Mauer". E dal cambio della guardia simbolico.

Hanna Flanders
Good Bye Lenin!

Solo che Good Bye Lenin! riesce a trovare lo spazio per ironizzare, introdurre la vita nello sconquasso di un sistema che crolla e lo fa non solo con la voce off, a cui è affidato l'ambito commentativo virato sul distacco sardonico sempre cangiante nell'intento di mostrare i vari aspetti della vita ossie come era, come veniva rappresentata e come potrebbe essere rievocata a posteriori (tre realtà diverse già per una sola percezione), mentre Hanna Flanders evidenzia solo la cecità dei vicoli in cui si dibatte la donna schiacciata dai fantasmi del passato; probabilmente la madre di Good Bye Lenin! non è mai stata una donna di regime: infatti le sue lamentele scritte dettate con humour alla vicina sembrano irriverenti sberleffi a un potere che non si poteva combattere in altro modo se non usando quei meccanismi interni al potere stesso che sembrava un moloch inamovibile poi svanito da un giorno all'altro, lasciando un vuoto colmato da oggetti che mutano destinazione di simbolo e d'uso. Ecco perché in un caso si è subissati da materiali, beni di cosumo e la centralità del racconto sta nello scambio simbolico del sistema degli oggetti (baudrillardiano?) mentre nell'altro si dibatte nell'azzeramento di un modo di pensare e di analizzare, di fare lavoro intellettuale e l'irriverenza finisce con il rivoltarsi contro la donna ormai spaesata e senza appigli per riuscire a decrittare una realtà ostile perché tradisce le letture precedenti e quelle proposte sono irricevibili.

Good Bye Lenin!
Hanna Flanders

Due figli nei due film, entrambi su fronti antagonisti rispetto alle apparenti certezze delle madri: giovani che reagiscono però in maniera diametralmente opposta. Due intellettuali ubriaconi nei due film: l'ex marito di Hanna e il professore che ha radiato la madre in Good Bye Lenin: nel primo film sigarette e bottiglie sono sempre presenti nell'inquadratura, sostituiti nel secondo dalle etichette delle merci che battono il tempo; due comunità dell'est: una accoglie la sconosciuta nella festa per l'omologazione al resto del mondo, l'altra organizza la festa di compleanno per tornare indietro alle congelate certezze del passato, che si addensano in entrambi i casi in mezzo all'inquadratura che dispone le persone a semicerchio, al capezzale della madre, ma soprattutto nella camera ardente delle speranze legate al "socialismo reale", in entrambi i casi. Due serie di televisioni nei due film: il bianco e nero rende ancora più ineluttabile la caduta del muro storicizzandolo ancora di più la "più colossale vendita di mattoni usati", come da definizione di Becker. La differenza è fatta dalla collocazione: Annelore interpreta una borghese che scriveva a München, l'altra donna invece era una proletaria di Berlino est; ciò che accomuna è la menzogna dell'idealismo stantio e già tradito da decenni, ciò che differenzia di nuovo i due testi è che Hanna non vede via d'uscita, Becker invece ripesca la radice di quell'ideale comunista, riproponendolo nella sua aurorale innocenza prima che fosse stuprato dal potere che in suo nome opprimeva.

Good Bye Lenin!
Hanna Flanders

Good Bye Lenin!
Hanna Flanders

In entrambi i film centrali sono le ricostruzioni mediate dalla televisione, sia quelle storiche, rese surreali dall'appartamento di Hanna Flanders svuotato progressivamente, sia quelle costruite ad hoc che arrivano a ribaltare la realtà, ma in modo anche plausibile e quasi augurabile, una Storia fabbricata per una sola persona dove l'appartamento è stato congelato e di nuovo riassemblato in una sequenza che cita Arancia meccanica (il riassemblaggio a passo uno della stanza), dopo aver evocato esplicitamente 2001 con lo scopo di sottolineare quale abisso di riferimenti fosse solcato tra ossie e wessie (verificato con una ossie a cui ho chiesto se avesse colto la citazione della esilarante sequenza del video del matrimonio con musica di Strauss a sottolineare un'astronave-bouquet da sposa: non capiva di cosa stessi parlando), quale enorme differenza ci fosse nell'approccio stellare di Tarkovski non intaccabile dall'immaginario occidentale di Soderbergh e il barocco kubrickiano. Un tema questo che occupa ossessivamente il film di Becker, rischiando di nascondere dietro il divertimento del riconoscimento dei prodotti quotidiani e del loro recupero decontestualizzato (a tratti quasi assimilabile a quella nostalgia di cosa era "francesità" in Amelie - quintessenza della postmodernità) la genialità simbolica della trovata: "perdere coscienza", da intendersi come incapacità di riconoscere la percezione del mondo come si presenta. La vera scommessa del film è aver risolto brillantemente questa ossessione attraverso il corretto dosaggio delle trovate che coinvolgono sia la sfera sentimentale (l'infermiera, ma anche il padre), sia quella del lavoro (la sorella al burger king, che vira pericolosamente sulla macchietta), o dell'universo di personaggi giovani e vecchi (i ragazzini prontamente convertiti al capitalismo, gli stereotipi di vecchi nostalgici e i supermercati che registrano semplicemente il cambiamento, adeguandosi). Riesce a trovare il modo per non risultare didattico o farraginoso, anzi infila serie di percorsi che scorrono paratestualmente, come si potrebbe intendere l'intrecciarsi della conquista cosmonautica che aveva suggestionato il giovane: Sabbiolino cosmonauta (geniale sottolineare che neanche sul termine c'è accordo: gli occidentali chiamano astronauta quelli che sono cosmonauti per gli ossie) è l'eroe che torna a sancire alla fine la passione che si era espressa con i lanci del prologo virato con un bel colore, che ben si sposa con i filmini amatoriali. Ma è anche il taxista "sosia" dell'eroe dello spazio. Ed è il campo - quello della conquista dello spazio - che ha contrapposto i due blocchi in modo simbolico, fino a occupare gli immaginari anche nel campo cinematografico: appunto Solaris/2001 del secondo intreccio.

Adriano Boano

Hanna Flanders
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Good Bye Lenin

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hanna Flanders

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Good Bye Lenin!

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Good Bye Lenin!

(2002; 118 minuti)

Regia: Wolfgang Becker; sceneggiatura: Bernd Lichtenberg; fotografia: Martin Kukula; musica: Yann Tiersen; montaggio: Peter R. Adam; produzione: X Filme Creative Pool, Berlin in co-production with WDR, Cologne; arte, Strasbourg; Distribuzione: Key Films. Interpreti: Daniel Brühl, Katrin Saß, Chulpan Khamatova, Maria Simon, Florian Lukas, Alexander Beyer, Burghart Klaußner, Michael Gwisdek

Good Bye Lenin!

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L'Avversario
(L'adversaire; 2002; 120 minuti) Regia: Nicole Garcia; soggetto: dal romanzo omonimo di Emmanuel Carrère; sceneggiatura: Frédéric Bélier-Garcia, Jacques Fieschi, Nicole Garcia; fotografia: Jean-Marc Fabre; scenografia: Veronique Barneoud; costumi: Nathalie Du Roscoat; musica: Angelo Badalamenti; montaggio: Emanuelle Castro; produzione: Wild Bunch Interpreti e personaggi: Daniel Auteil (Jean Marc Faure); Geraldine Pailhas (Christine); Francois Cluzet (Luc); Emmanuelle Devos (Marianne)

L'Adversaire di Nicole Garcia

Due diverse visioni di una vita fondata sulla menzogna. La prima, L'Avversario di Nicole Garcia, la seconda, Good bye Lenin! di Wolfgang Becker. La produzione francese infligge allo spettatore 120 minuti di quasi-noia che si trasforma lentamente in tensione, in presentimento della tragedia imminente. Anche chi, entrando in sala, non sapesse nulla del dramma vero che fa da sfondo alla vicenda cinematografica, non può fare a meno di sentir crescere la necessità di un accadimento, di qualcosa che smuova definitivamente le fondamenta del castello di menzogne costruito da Jean-Marc Faure, un evento che spazzi via ogni cosa e ogni sentimento trascinando con sé tutto ciò che trova sulla sua strada.

L'Adversaire

La fissità espressiva dell'attore (che coincide - non troppo volutamente - con il personaggio di Faure) fa da sfondo alle lunghe inquadrature nei parcheggi degli autogrill, o nelle sale vuote del ristorante dell'Oms di Ginevra. Come far passare il tempo, mentre il resto del mondo pensa che tu sia ciò che fai credere di essere? Faure si costruisce una realtà fittizia vivendo un'esistenza da malato schizofrenico di cui alla fine pare assimilare anche i sintomi più evidenti: dopo aver tentato di eliminare l'amante in un bosco sostiene in un dialogo surreale con la sopravvissuta (per pietà dei suoi figli, dopo che lui stesso ha appena ucciso i suoi due) di non ricordare come ha potuto aggredirla.

L'Adversaire
L'Adversaire

Non può dirsi surreale il film, né la vicenda narrata, e tantomeno la narrazione, eppure surreale è la presenza, in sé inquietante, di Auteuil-Faure, e del vuoto del suo sguardo che ricorda, nelle sue eterne camminate in androni popolati di altre esistenze più o meno vere, lo sguardo di personaggi buñueliani sulla via per Compostela.
La menzogna è ovunque in questo film: il lavoro, i rapporti con la famiglia, con i genitori, con l'amante, con gli amici che ricostruiscono la follia omicida cui sono scampati, stupiti di come non si siano accorti della finzione che regnava intorno a loro. Per tutti è finzione, meno che per Faure: per lui è verità, per lui è quel che rimane della sua vita, trascinato da un "lasciarsi vivere" che gli impedisce ogni iniziativa e movimento. Vorrebbe parlare Faure, ci prova due volte, ma la contingenza, lo svelarsi della sua storia con Marianne copre le altre mille bugie, lo blocca mentre cerca aiuto per se stesso, concentrando la sua attenzione su come ricucire lo strappo con la moglie. Faure non sceglie come fanno i personaggi di Chabrol, folli nel momento in cui fanno strage di famiglie (mi riferisco al Buio nella mente). Faure è un ragno incastrato nella sua stessa ragnatela.

L'Adversaire

Come lo è Alexander di Good bye Lenin!, ma vien da pensare, in questo caso, che la menzogna sia lecita, se a fin di bene.
Il figlio mente alla madre per preservarla da emozioni troppo intense, come potrebbe essere la caduta, insieme al Muro di Berlino, degli ideali socialisti nella Germania degli anni novanta. La personalissima utopia materna non contempla però il diritto dei figli di sapere che fine ha fatto il loro padre. La sua è la menzogna più grossa, cambia radicalmente la vita dei suoi figli, vanifica quasi la necessità di sommare bugia a bugia, perché difendere dalla realtà una madre che ha deciso di mentire ai figli per egoismo e paura? In entrambi i casi, la menzogna materna e quella dettata da amor filiale, si nasconde una realtà esistente, una realtà "evidente": è sufficiente frequentare o lavorare in un luogo pubblico come un fastfood per vedere di sfuggita il padre fedifrago (ritenuto fedifrago, un'altra realtà falsata) che si pensa fuggito ad altri lidi. Oppure, è sufficiente sporgersi dal letto per vedere uno striscione inneggiante al simbolo occidentalissimo della Coca Cola o uscire per strada mentre Lenin saluta ironicamente dal cielo la sua Berlino ormai passata alla barbarie dell'Ovest. Rimane impresso lo spaesamento nel momento della realizzazione: la verità arriva improvvisamente, per strada o nel prato della dacia, la verità come una mannaia tra capo e collo e il colpo è la realtà; eppure Alexander riesce ancora in un ultimo disperato tentativo di ricomporre i pezzi di un puzzle creato ad arte. L'amico aspirante regista monta un notiziario che riassume l'utopia in cui ha creduto chi ha riposto tutte le proprie energie nella realizzazione del socialismo. Tutta la storia si sviluppa su un parallelo dispiegarsi di realtà contrapposte: quello che succede realmente e quello che si vorrebbe succedesse. Alexander in realtà crea una realtà che è anche a sua misura, non solo a misura della madre.

L'Adversaire

Mentre in L'avversario, la menzogna non è surreale ma tragicamente quotidiana, qui è surreale la sua rappresentazione: Alexander e la ragazza siedono sul baratro di una casa in rovina, tagliata in due come le loro vite, dietro di loro una luce calda e diffusa lascia in chi li osserva un'aura da commedia romantica che "in realtà" non è.

Chiara Biano