Apparenza e desiderio nel jidaigeki

Non ci sono gli estremi per identificare in superficie addentellati comuni tra il capolavoro, liberamente tratto da Ueda Akinari, di Mizoguchi Kenji e l´ultimo film desunto da Shinsegumi Keppuroku di Shiba Ryotaro girato da Oshima Nagisa, però sono accomunati da quell´illusorietà che si delinea come strumento fondativo dei mezzi essenziali a disposizione dell´artista giapponese per formalizzare una realtà sfuggente perché al confine con il fantastico, che la abita con lo scopo di condizionarla e, uscendo dalla metafora, spiegarla. La parvenza può essere mitica, tradizionale, ammantarsi di onorabilità (ormai corrotta), reale, ma relegata in un passato che va uscendo di scena; oppure l´apparenza può essere torbida, proibita, ambigua e misteriosa (cosa sussurrerà Kano all´orecchio di Tashiro di tanto indicibile – il vero tabù? – da farlo sussultare dopo il proditorio "Perdonami", col quale aveva già accompagnato la decapitazione del reprobo commilitone?), soprannaturale, ma mescolata alla realtà in modo che non è distinguibile dal "vero" che sta sfumando.