Sete, di mortifera apparenza, e crisantemi, di bellezza vitale

si sciuperebbero senza sincerità

Una frase di Shinoda Masahiro relativa al cinema di Mizoguchi si attaglia perfettamente anche a Gohatto: "Il reale fulcro della sua attenzione è l´apocalisse dell´emozione, al di là del momento rappresentato, banale o importante, e al di là dell´ambiente, modesto o lussuoso. L´unica cosa che egli non cessa mai di fare è attendere il culmine, il punto di rottura, l´esplosione della passione, il momento in cui la lussuria o la vendetta precipitano verso la morte, impedendo che tale esplosione abbia una propria progressione e un proprio ritmo non controllati. Così il suo modo di narrare, non volendo rappresentare né il Principio né la Fine, si trasforma in una passerella verso la Morte. Questa tecnica penso sia estremamente simile a quella delle rappresentazioni del nô."

L'atmosfera del film può essere definita ¨la conclusione dolce e malinconica di un lutto elaborato¨ e forse il possibile lascito di nuovi inizi. Mishima è morto, e il macigno di ciò che non sarà più (da oltre un secolo, non sarà più) lascia spazio alla delicatezza di immagini condivisibili.
Una piacevole novità è lo svelamento almeno parziale del codice di lettura, senza che peraltro si rinunci alla profonda nipponicità, bella e ipnotica come il suo portavoce Kano.

Apparentemente si fa il panegirico della sincerità, ma in realtà si recupera un topos di Ueda, che utilizza la sua attenzione metalinguistica per rappresentare sempre il fascino dell´opera d´arte insito nella falsità del racconto letterario e allora le ambiguità che si incontrano in entrambi i film con le infinite coppie oppositive, la ricorrenza del "due", e dei movimenti che producono un processo a cui si può porre rimedio solo con un gesto uguale e contrario, indissolubile dal primo, le doppie prove e la bellezza sempre bifronte (anche la geisha ha orpelli nei capelli che richiamano forme di serpi, come la donna-serpente di Ueda) si rivelano come mezzo per instillare un sottile e ironico dubbio, che rende la narrazione meno dottrinaria, didattica ed estranea. Un compito assolto in senso marcatamente macchiettistico dall´anziano samurai incapace e con maggiori sfaccettature dal volto gommoso di Takeshi beat Kitano: infatti i suoi monologhi interiori discostano il suo personaggio, quasi ritagliandolo dal fondale di shoji e stagliandolo sulle disposizioni precise delle figure negli interni, come le soggettive di Genjuro nelle quali entra lui stesso, introducendo le incursioni del soprannaturale in Ugetsu monogatari e combina una visione in prima persona con la sua prosecuzione in terza, o come la figura del vecchio monaco che svela al vasaio la natura di spettro di Wakasa.



Questa parziale estraneità di Kitano introduce un elemento di scherno nei confronti di quella comunità, che rimane sospeso; un dubbio che gli autori lasciano inesplorato: il punto di vista del film ruota attorno a lui – o meglio attorno alle sue incertezze riguardo alle manifestazioni di decadenza della Shinsen-gumi, che non è in grado di spiegarsi e che non riguardano la bellezza extraterrena di Kano, quanto l´attrazione per la bellezza – e pertanto il fruitore rimane titubante di fronte alla possibilità di interpretare gli inserti commentativi come raffinato dileggio delle milizie (Aimaina Nihon no watakushi, Il figlio dell´imperatore di Ôe Kenzaburô, Marsilio, Venezia 1997), piuttosto che lasciarsi ammaliare lui pure dalla perfezione della forma, ritagliata dalla maniera dei film in costume, dai cromatismi e dai giardini zen; dalle sete, che in Ugetsu monogatari erano il tramite per entrare in contatto con il vacuo mondo dei raffinati ectoplasmi, dei quali non è in dubbio il gusto, ma l´estetismo, e quindi sembra sovrapporsi un atteggiamento scettico al racconto soprannaturale del samurai che per non venire meno all´appuntamento si uccide per essere puntuale come ectoplasma: altrettanto poco spiegabile, se non abbracciando la suggestione – peraltro di moda – dei morti che tornano brevemente per cangiare il corso degli eventi (The Weight of Water di Bigelow, The Gift di Raimi, Body Art di De Lillo), tutti consolatori come nell´epilogo di Ugetsu monogatari di Mizoguchi.


La questione diventa più sottile dell´apparenza dei simboli che vedono il demone presentarsi lungicrinito in kimono bianco (colore del lutto) tra costumi rigorosamente neri, i crisantemi come simbolo della bellezza vitale, oppure la violenza subita dalla bellezza senza che ne sia intaccata (l´inculata violenta e per nulla "attraente" sembra non sporcare Kano: è una sequenza che riassume la filmografia anti-autoritaria di Oshima. L´impotenza del potere); anzi sembrano false piste messe in scena per sviare dal retto sentiero narrativo che conduce al gioco nell´agone finale, la radura totalmente teatrale, assolutamente innaturale, fuori dal mondo, un campo neutro espressionista quanto il lago di Ugetsu monogatari, dove tutto l´apparato organizzato fino a quel momento viene messo in crisi dall´artificiosità dei colori, si manifesta per quel che è, un passato in decadimento senza speranza ("Io non ho nessun futuro", dice Kano), macabro nelle manifestazioni – la testa come un Battista decollato da una Salomé maschile fa il paio con la testa che, per divenire samurai, Tobei, il cialtrone nel film di Mizouchi, porta come prova di coraggio e subito dopo viene mostrato alla testa di un corteo ripreso con lo stesso taglio, le medesime inquadrature, l´identica profondità e ambientazione del corteo di Isami Kondo, il comandante supremo dello Sinshen-gumi, che in virtù di questo paragone con l´illustre precedente viene ridotto a bozzetto degno delle carte irohagaruta – e trascende persino l´ironia beffarda delle didascalie che accompagnano il film all´inizio (codici di condotta del samurai come cartelli a tutto schermo che accomunano il lavoro a Ghost dog, ma con maggiore sarcasmo: là lo spaesamento era dato dal "luogo" incongruente con le regole, qui è il superamento della storia, e quindi derivante dal "tempo", che rende degno di derisione il mondo che con tanta cura si è venuto creando) al punto che Takeshi agisce quel gesto sul ciliegio che supera il distacco del suo personaggio e sembra chiudere il contatto con il mondo soprannaturale e la stagione dello shogunato: il caos finisce ma anche le norme che dovrebbero regolare l´ordine, però quell´accenno alla sincerità e alla finzione che ci riporta a Ueda-Mizoguchi continua a non trovare composizione e sancisce il taglio netto come spaccatura ancora una volta rivoluzionaria, come ai tempi nouvelle vague di Nihon no Yoru to Kiri (Notte e nebbia del Giappone,1959).

Il vero tabù innominato e irrisolto sembra quindi riassunto nella fornitura di elementi per dirimere dove sia il confine tra finzione e realtà, tra fenomeni naturali e sovrannaturale, tra spettri affascinanti e bellezza, ovvero il pressante bisogno di individuare quale sia la vera natura della bellezza in arte per non confonderla (tabù) con una demoniaca parvenza senz´anima: "Ti sei lasciato trascinare da un amore proibito; quando vedrai quanto è orribile quello spettro tornerai in te" (il monaco in Ugetsu monogatari).