Remzjia


Soggetto e regia: Mimmo Calopresti
Proiezione: Teatro Juvarra, 10-10-99 ore 21
Distribuzione: Rai
Formato: betacam
Provenienza: Italia
Anno: 1999
Durata: 22 min.



Il volto aperto e autorevole di Remzjia non sfiorito dalle dodici gravidanze riempie subito lo schermo: Mimmo ha sensibilità da vendere e lo dimostra durante e dopo la proiezione del film, quando con la protagonista e Marco Revelli (scrittore di Fuori Luogo, edito da Bollati Boringhieri, £ 18000) dice due parole non sul suo lavoro, ma sulla situazione della nostra inciviltà, evitando di sovrapporre l'autore al soggetto, come già aveva fatto con Riccardo Freda.

Durante,
perché si accorge subito di quell’ombra che si avverte nello sguardo limpido della zingara e lo propone immediatamente nelle sue riprese prive di retorica, sostituita dalla condivisione di sensazioni e soprattutto dal rispetto non peloso per una cultura fortemente marginalizzata, forse perché i nomadi sono anomali e sospetti perché non hanno mai dichiarato guerra a nessuno o forse in quanto evocano paure oscurantiste medievali: certo non si deve sprecare la parola integrazione con questi uomini, perché è mille anni che vagano nelle nostre terre e se non li consideriamo integrati è a cagione di una precisa volontà di allontanamento, hanno sicuramente diritto di residenza come e più di uno qualsiasi di noi e di coloro che quest'estate gli hanno bruciato le case, li hanno percossi e cacciati. Soprattutto Remzjia che abita sempre nello stesso luogo dal 1972 e, quando vi avvicinate a loro, vi chiede subito cosa significa la vacua parola "integrazione" riferita ad un popolo che vive da mille anni in stretto rapporto con i consumi della società che li emargina.

Dopo,
perché si chiede come mai suo padre, emigrato calabrese a Mirafiori, si sia integrato e invece Remzjia no. E questo ci viene svelato come il punto di partenza del suo lavoro. La risposta che il regista di La parola amore esiste si è dato è quel diritto ad abitare il mondo come si preferisce, che sottovoce lei sussurra alla fine del filmato in un'inquadratura costruita benissimo dalla presenza di persone a farle corona, un'intimità familiare completata dalla soffice mollezza accogliente dei cuscini sullo sfondo, una sensazione di pace e di domestica tranquillità: "In una casa chiusa è difficile che uno zingaro possa stare. Siamo abituati al verde e anche magari al pattume". Per loro è fonte di sostentamento riciclare materiali, questo non significa però che debbano essere trasferiti tra il canile e la discarica, un luogo di miasmi mefitici velenosi individuati dalla giunta di sinistra come idonei per ospitare tutti quelli che non votano, cani immondizie e zingari; tuttavia quella incapacità di sopravvivere dentro una casa chiusa è la chiave per capire il rifiuto opposto dalla società (in)civile ad accogliere comunità che non riescono a rinunciare ad una parvenza di libertà; hanno già abbandonato a malincuore il nomadismo ("Era bello girare il mondo: era più bello cambiare persone, vedere fiumi. Fermandoci non abbiamo ottenuto nulla, abbiamo perso qualcosa") senza ottenere la certezza dei permessi di soggiorno, dovranno anche rinchiudersi in case popolari per scardinare la gretta diffidenza degli intolleranti, perdendo la loro abilità di carpentieri, le loro peculiarità artigianali senza sostituirle con l'accoglienza? Mimmo incrina la voce incredula quando dal palco si chiede cosa ce ne facciamo di un sindaco di centrosinistra se una società opulenta non riesce a risolvere questa semplice richiesta di poter avere una casa un po' più "aperta" delle grigie e chiuse case popolari.

Gli zingari rubano? Anche questa accusa viene affrontata di petto dalla donna e dal video, subito e senza infingimenti. Infatti la prima frase choc del video non appena ci appare Remzjia ci coinvolge, spostando le certezze dei parametri su cui si puntella la città simbolo del lavoro e del dimenticato scontro sociale: "É vero. Rubiamo. Ma che cosa!? Piccole cose e tutti ci corrono dietro: polizia, giornalisti. I gadjo rubano miliardi e nessuno dice niente". Il vero delitto aleggia nelle riprese dell'Arrivore, ma non è esplicitato nel video e neanche dai convenuti, ci penserà uno spettatore afroamericano, durissimo e lucidissimo in una requisitoria pronunciata in un italiano forbito, in cui si insinua anche la parola in vernacolo piemontese (bôn om) scandita con buona inflessione per scardinare lo squallore delle certezze locali sulla bontà degli uomini, tali soltanto in base al valore lavoro e dunque subordinando l'umanità al denaro e alla produzione: questo è il vero ostacolo alla convivenza civile, la violenza con cui l'inospitalità della città si manifesta mascherandosi con l'austerità di cui si fregia la metropoli Fiat da Annibale in poi per nascondere la sua grettezza micragnosa.


no copyright © 1999 Expanded Cinemah Home Page No rights reserved