Il modello di Araki è semplice ed incisivo, ripetitivo e sorprendente: divide per paragrafi il racconto, rincorrendo diversi frammenti attorno al filo rosso dipanato su un personaggio e ancora di più descrivendo un paesaggio ipersurreale, e fa precedere sempre un totalone allo sviluppo del capitolo: un'inquadratura fissa che funge da copertina, inserendo il soggetto momentaneamente centrale nella percezione di Dark Smith (e dello spettatore) in un contesto STUPEFACENTE per colori e decorazioni. Successivamente il meccanismo RIPETITIVO prevede progressivi avvicinamenti della ripresa ai soggetti in esame e inquadrature sempre più strette, fino a racchiudere nel contorno dello schermo l'intero microcosmo che li contiene comprensivo di aura emanata dalle due tre entità-persone, giungendo al dettaglio dell'epidermide levigata (nonostante si disquisisca anche di acne tra gli apparecchi odontoiatrici) e luminosa: quel ristrettissimo e claustrofobico spazio ritagliato è l'unico criterio di esistenza provata, che conferisce sicurezza proprio dalla condivisione di uno spazio limitato in cui ammassarsi, sentendosi con i corpi magari non a contatto, o non ancora, ma ravvicinatissimi. La SEMPLICITÀ delle serie di riprese consente un'adesione al sistema di paragrafi tale da evocare un racconto a metà tra il gore e la fantascienza rivolta agli adolescenti, ma aggiungendo l'incisività della ricostruzione dei mondi attraverso l'evidenza degli ambienti che proiettano la natura dei singoli in un rigoglio di atmosfere iperdecorative che titillano gli occhi con un'attenzione al dettaglio SORPRENDENTE.

Tranne l'alcova dell'ossessivo Bart, tutti gli spazi sono accessibili da finestre che danno su un esterno apertamente infido, ostile per colori aggressivi e continue esplosioni di luce, come un kammerspiel pop. Egli si strugge in una camera oberata di scritte perpetuando il mito dell'adolescente travagliato e destinato ad una precoce fine; Egg, ragazzina ingenua, non può che "abitare" una stanzetta rimpinzata di fiori che si trasformano in funerei orpelli; su quella di Dark poi campeggiano situazioni classiche del cinema, resa ancor più poetico utero amniotico dalla dominante azzurra.

Può apparire ingenua presunzione inserire speculazioni filosofiche esplicite ("Come fai a vivere una premonizione se non sai nemmeno come si chiama?"). In realtà non è una battuta peregrina, ma la velata polemica verso certa ortodossia derridiana, che fa risalire qualsiasi esperienza umana al linguaggio, rivela l'impianto del film: se per una metafisica debole tutto esisterebbe soltanto per diretta emanazione del linguaggio, nel film invece la cognizione dello sfacelo dovrebbero provenire da inferenze extralinguistiche: sensazioni, visioni, onirismo. Il rischio sarebbe ricadere in un fondamento forte, che viene tuttavia estirpato dalla filosofia negativa che pervade il film. La piccola contraddizione è nell'uso preliminare di atmosfere linguisticamente decadenti non soltanto per vezzo estetizzante, ma con funzioni intrinseche alla comprensione del testo e di indizi, il più palese dei quali è il manifesto su cui si staglia per la prima volta la figura aliena: è un coacervo di memoria cinematografica e dunque distillato di linguaggio purissimo, come la parete della stanza di Dark.

Piacevoli corpi giovani si allacciano ...

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