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01/01/2007
I guai del presente hanno sempre una ragione lontana.


Tutti gli uomini (e le donne) di Rondolino 1977-2007
ovvero
potrebbero risolverla in un garage il 14 febbraio, san Valentino

Dopo Mezzanotte, poco dopo e proprio lì dove si accascia il protagonista del film di Ferrario, davanti ai vetroni del cinema Massimo qualche sera fa usciamo dalla visione di Tutti gli uomini del Re, dove un gigioneggiante Sean Penn non offusca l'assunto principale del film: La Chute de la maison Usher trasportata in salsa Mississippi con meno voodoo di quell'altra Mezzanotte della sonnecchiosa Savannah di Eastwood, vecchia proprio di dieci anni: un crollo della borghesia dell'Estremo sud degli Usa resa possibile nella sua apparente inossidabilità dalla connivenza con un parvenu demagogo e con pochi scrupoli, che è un attentato all'uguaglianza dei cittadini, a cominciare dai suoi rapporti con le donne, quegli stessi che sono parte essenziale di un altro elemento di questo racconto di Capodanno (Piove all'insù di Luca Rastello, pubblicato quest'anno da Bollati Boringhieri); e allora questa disquisizione a ruota libera sulle ceneri del festivalismo diventa un antidiscorso di capodanno, da consumarsi in alternativa all'ufficialità di quello di Napolitano o di Grillo.

Il film di Steven Zaillian è una ricostruzione storica collocata, come nei fatti autentici a cui si ispira, nei primi anni Cinquanta, ma che è descrizione patente di un presente, in cui può avvenire che una vecchia baronia universitaria, fattasi sistema e che aveva occupato tutto lo spazio cinematografico torinese nei passati decenni, venga incrinata, messa in discussione... da un altro, più rozzo, sistema di potere (Oliva, giocando allo storico, ha maneggiato le foibe in modo scientificamente discutibile, politicamente censurabile, strategicamente sanzionabile) che usa alcuni elementi di quella dinastia per sostituirsi a essa, utilizzando anche persone che negli anni Settanta erano giovani impegnati a occupare lo spazio in modo da finire nei libri e nei film di trent'anni dopo su Radio Libere e scontri epici; un presente che è enormemente distante da quel Settantasette descritto da Luca Rastello senza reducismi e con parecchio di irrisolto, sano antidoto all'autoindulgenza che molti nostri compagni di allora - e ora coinvolti in questa bega - hanno ostentato per calcolo politico (d'altronde anche Rastello a proposito di un sottosegretario agli esteri attualmente in carica dice a pagina 41 che "si doveva capire già allora che era una testa di cazzo" e questo vale per quasi tutti i protagonisti della Dinasty torinese di fine 2006) o per riciclaggio culturale (Rastello descrive quella stessa via Po che ho visto anch'io quel giorno in cui bruciò l'Angelo Azzurro, anche se non riuscivo già allora a fare il "militonto" e quindi diffidavo dei servizi d'ordine, da cui lui osservava la stessa scena raccapricciante).

C'era urgenza di azione e medit-azione in quei giovani, che esattamente trent'anni fa si specchiavano con orrore misto a compiacimento nel secondo lungometraggio di Nanni Moretti, denunciandone la superficialità e riconoscendo che i vezzi e i tic descritti avrebbero finito con il produrre un'implosione, anziché la divertita esplosione rivoluzionaria che andavamo preconizzando; mentre Nanni preparava scientificamente il suo personaggio ad attraversare altri vezzi italici, dimostrando di essere parte di quella schiera di mestieranti del cinema di costume che hanno usato i film per descrivere gli aspetti più evidenti della società italiana fin dall'immediato dopoguerra. Esaltato per quello (ma senza dirglielo, facendogli credere di essere un fustigatore e non un ingranaggio di quell'italietta), ora è ripescato come un santino nel suo anniversario: riproposto come film nella riedizione trentennale - e con imperdibile reading dal vivo nella capitale! - e come personaggio spendibile per un ruolo "istituzionale".
Per noi allora contava soltanto il presente da consumare integralmente - forse in assemblea qualcuno avrebbe detto "sintagmaticamente" (ma solo per consentire a Lui di chiedere qualche anno dopo: "Ma come parli?", scordando che il dileggio per Cessario scattava immediato e non fuori-sinc al suo "Cazzo compagni...": gli anticor(p)i erano in noi) - senza badare a quanto era avvenuto e soprattutto verso dove era proiettato quell' "ora e subito" che tanto ci premeva... e Moretti non poteva non mettere alla berlina quell'intransigenza, perché lui ha sempre guardato al futuro che si può sviluppare da quel presente, in cui noi invece ci dibattiamo da allora senza uscirne, un Presente sempre "presente" a se stesso, antidoto all'incoerenza.

Certo nell'iconoclastia del Settantasette non avremmo impiegato più di un'assemblea a stigmatizzare tutti i personaggi di questo scadente canovaccio da epigoni di saghe coppoliane: tutti, nessuno escluso, sarebbero stati dileggiati da quel giacobinismo divertito e sarcastico di cui sento un po' la mancanza, un giacobinismo che manca, per fortuna, in Piove all'insù, ma che in questa sordida vicenda di spartizione di spoglie di un festival ormai bollito sarebbe l'unica possibilità di redenzione.
Nel libro di Rastello quello scorrazzare su e giù per i decenni andati è apparentemente contraddittorio con l'assalto di allora al presente come unico tempo (Alexander Kluge realizzò qualche anno dopo, nel 1985, Der Angriff der Gegenwart auf die übrige Zeit, ma allora aveva già girato Ratlos e Der Starke Ferdinand, allegoria di alcuni dei protagonisti di questa piccola storia ignobile, era proprio del 1977), in realtà può essere l'unico modo per rimanere fedeli a se stessi, quando il ricordo si fa così pressante da richiedere una rivisitazione affastellata per cercare una frase, una qualche indulgenza verso quel nostro venire meno, dopo il fuoco improvviso che ha lasciato traccia solo in noi (quelli che non si sono riciclati) e purtroppo non nella società, che invece doveva essere l'obiettivo primario nelle parole delle assemblee d'antan. E senza rinunciare a pensare da irreconciliati... e qualche volta riuscendo anche a vivere come tali, al di fuori da kino-circoli viziosi.

Leggendo il libro di Rastello e Il Ponte di Vitaliano Trevisan (Einaudi 2007) mi è venuto da chiedermi cos'è che sta spingendo i miei coetanei a riaccendere i riflettori su quel periodo? Non mi stupisco, ogni tanto compaiono dei film su Andrea Pazienza o ambientati in quel periodo, in cui non ci fu data la possibilità di realizzare nulla per paura di un reale cambiamento (la repressione brutale mosse i filosofi francesi, ormai tutti morti, che avevano individuato una flebile possibilità di proposta da quel mondo in fermento poi azzerato dagli anni Ottanta), il modello criticato ci fu imposto e ci dovemmo adattare, nessuna attenzione e nessuno dei temi affrontati allora ha avuto risposta o confutazione, semplicemente fu sepolto da eroina, asfittico terrorismo, porti delle nebbie accademici o giornalistici, con annessi i controlli della informazione in grado di pilotare ogni dibattito verso un ritorno all'ordine, alla normalità.

" - Veramente sei tu quella impegnata a cambiare il mondo... Sai, in questi giorni mi sono trovato forzatamente a riflettere, anche se di corsa, sui destini dell'umanità. Non c'è niente che possa cambiare con una rivoluzione e con un modo diverso di gestire il tempo. Gli uomini ripetono gli stessi errori a ogni generazione, senza possibilità di scampo. Tra vent'anni ci sarà qualcuno che vorrà modificare, magari con la forza, ciò voi avrete ottenuto - se lo otterrete - in questi anni di lotta sociale. Tante illusioni che si ripetono, tesoro mio. Perché le illusioni non cessano di esistere, semplicemente cambiano generazione.
Sorrise, ma senza sarcasmo, con una tenerezza infinita.
- Forse hai ragione. Comunque adesso sono ancora le nostre."
(Sergio Pent, Un cuore muto, e/o, Roma 2005, p. 241)


Allora perché come l'araba fenice periodicamente ricompare il Settantasette? Forse si vuole cogliere ora la contingenza dell'anniversario tondo come ultima occasione per sollevare la cappa di piombo che lo status quo gettò sulle spalle di quei giovani di allora che hanno lasciato là sotto se stessi per riconvertirsi nei modi più disparati, risultando decimati da tutte le sostanze e le suggestioni micidiali che ci hanno scagliato contro? Non posso credere che si tratti solo di trentennali o del recupero di figurine svanite in un'ultima immagine dietro i finestrini di un bus che divide i destini non più intrecciabili. Forse invece il revival nasce dall'impressione - che abbiamo probabilmente tutti - di essere salvi per caso... ma siamo realmente salvi? Davvero non è morto nulla dentro di noi di quella forza cresciuta in quei pochi anni di Movimento?

Stavo ancora rimeditando su questi pensieri, quando si scatena la bagarre del pollaio di Rondolino e allora mi convinco che la scelta quasi obbligata di rimanere fuori da quei giri - pur conoscendo i protagonisti (e anche quelle affiliate perse per strada, quasi sempre le più preparate, rottamate in quanto troppo brave, finite a "Segnocinema" o spose di dirigenti di musei) e masticando visioni da trent'anni - sia stata una intuizione fortunata, legata a quello che il ragazzino del Settantasette aveva elaborato da quell'esperienza: sempre diffidare del potere sotto qualsiasi spoglia si presenti. Rondolino poi ha sempre rappresentato, per il ribelle visionario del cinema, l'essenza della ricerca del controllo di tutti i gangli cinematografici cittadini, cooptando e legando alle sue scelte tutti quelli che avrebbero potuto occuparsi di cinema in città... e per trent'anni c'è riuscito, finché gli adepti sono diventati più che luogotenenti, ambiziosi nuovi capiclan, un godimento per chi sta affacciato a vedere come stanno distruggendo il loro impero (tanto poi qualcuno lo ricostruisce più bello e più superbo che pria). E vorrei sperare che non abbiano preso l'iniziativa di usare il potere politico per smuovere le acque stagnanti (e non viceversa, come si continua a dire) proprio i Barbera, stufo di fare anticamera alle soglie della pensione, o i Della Casa, in vena di vendetta per il misterioso modo in cui il boss lo defenestrò tre anni fa, dandogli il benservito in modo autocratico e senza spiegazioni ufficiali alla fine di una buona edizione del festival, forse perché cominciava a fargli ombra ed era sicuramente meno pericolosa l'algida Vallan, collaboratrice glamour del quotidiano più schierato a favore di Rondolino.

Con noi - Paola (nel 1977 cinematograficamente aristarchiana - Aristarco, altra vittima illustre del sistema Rondolino, promosso al Centro Sperimentale per essere rimosso; probabilmente avrebbe promosso un sistema opposto e uguale, con altri affiliati, altrettanto compagni, anzi ortodossi autentici) e Adriano (allora studente non blasonato - come ora, ma non più studente - e molto polemico frequentatore dei seminari per laureandi di Rondolino), vecchi settantasettini - in questo poco Dopo Mezzanotte c'è il Nipote (per antonomasia, a proposito di nepotismi); vent'anni compiuti nel 2006, venuto su dalla parte giusta, libero da infiltrazioni mafiose. Ci attardiamo un attimo appena fuori a parlare di flessibilità e precariato - lui si impone di potersi ancora permettere di fare l'anima bella e rifiutare di farsi sfruttare, la sua compagna, ahilei, no - e dall'altra sala escono tre volti conosciuti, ventenni con aria decisamente contrariata, sono suoi amici: hanno visto per la prima (e immagino ultima) volta Ecce bombo. Schifati.
La nostra reazione di fronte ai tre ragazzi è di sollievo: significa che non solo non si riconoscono, ma che non riconoscono nemmeno validità storica al testo, in più si tengono ben distanti dal gusto morettiano che non è sicuramente cambiato da allora, anzi probabilmente hanno sviluppato predilezioni che potrebbero davvero sprovincializzare il panorama di analisi cinematografiche torinesi, affrancandole dalla vulgata e finalmente dare la stura a analisi serie del linguaggio cinematografico... L'altra faccia della medaglia è che, come generazione, non siamo stati in grado di fornire loro mezzi e informazioni utili per difendersi da immaginari e centri di potere, né di ricostruire quell'epoca, per cui a parte il giudizio di merito sul film (a proposito del quale già Mario Marchetti, appartenente invece alla generazione precedente, ricordo che sulla scala del Movie di via Principe Amedeo ci chiedeva, ridendo in quel suo modo sornione e intelligente, se quel film generazionale era secondo noi una rivelazione, un "film cult") viene a mancare anche la possibilità di confutare la superficiale ricostruzione dell'allora trockista di Roma nord.
Ma forse il dramma non è soltanto la mancanza di memoria storica, a rendere impossibile l'ingresso nella realtà del Settantasette è l'appartenenza o meno a quella generazione e alla pletora di punti di riferimento comuni: la possibilità di riconoscere situazioni, oggetti eventi - anche mediatici - che contribuiscono a fabbricare la complicità è l'unico passepartout per capire cosa significasse il Movimento allora. Il testo di Vitaliano Trevisan è interessante per ricostruire la coesione di una generazione intorno all'accumulo di senso, che è il fulcro del libro fatto di recupero di ciò che è andato perduto e anche di ciò che rimane irrisolto, fin dagli input dell'infanzia, che aggiungerei coinvolge anche e soprattutto l'immaginario costruito a cominciare dal cinema. Oggetti, ma soprattutto miti, gesti, situazioni comuni a tutti i settantasettini: Trevisan nella sua furia iconoclasta assomiglia - senza il disincantato sarcasmo del nonagenario regista toscano - a quello di Monicelli, che al contrario di noi può narrare il 1941, come se fossero gli italiani di adesso, soltanto con le facce e le camminate diverse, invece per noi è arduo ricostruire il Settantasette, perché quei parametri sono stati offuscati tutti, nascosti, cancellati... ne emergono ogni tanto testi che attingono a sensazioni e memorie.
E di nuovo si torna al dilemma su cosa sia morto dentro Steve o Barbera per accettare di affiliarsi a quel sistema?

Riassumendo. Il protagonista di Ferrario come ultima immagine si trova a fissare con dispetto il faccione elettorale del principe dei Brogli, che in Italia De Niro ci insegna essere presenti fin dal 1948 (non siamo dispiaciuti di quello che ha rivelato Milton Bearden: non abbiamo mai creduto nelle elezioni e comunque i protagonisti di questa triste storia esplosa sui quai del Po sono tutti ex comunisti, dimostrazione che i diessini sono solo un'etichetta per gestire potere, come scrive un altro coetaneo illustre, Gramellini, che frequentando il liceo in un istituto confessionale, come il giustizialista Travaglio, probabilmente non aveva occasione di incontrarci nel 1977, o probabilmente sarebbe stato dall'altra parte della barricata); i due eroi di Steven Zaillian confondono il loro sangue portando a compimento il disegno dello stemma della Louisiana; il regista di Ecce bombo si è trovato a doversi confrontare con il sistema intessuto da Rondolino, preso in mezzo in una guerra di successione tra i discepoli del docente che proprio trent'anni fa cominciava ad allungare i suoi tentacoli su tutto quello che era il sistema cinematografico torinese, a cui le istituzioni locali hanno sempre fatto da sponda e da forziere, non esistendo alternative possibili né all'occupazione manu militari di quello che è il cosiddetto apparato scientifico, né agli assessori, ostinatamente irremovibili gestori della res publica: Alfieri (non Vittorio, come scrive De Bernardi, francamente non più vedibile lui pure con i suoi birignao, perché sorta di cinema vecchio nella sua presunta poesia, come vecchi sono tutti i personaggi di questa storia del vecchio anno, che si protrarrà nel nuovo) Fiorenzo era già assessore 24 anni fa (con Silvia Ormezzano, altro cognome nobile di questa città dove se non si è affiliati, non si può fare nulla), ma da quell'epoca a Rondolino sono andate sempre bene le sue ingerenze... sì, perché quelle che giustamente denuncia "il manifesto" - vedendo però solo il marcio da una parte, sposando l'altra non meno putrida fazione - come ingerenze politiche in un manifestazione cittadina sono prassi visto che all'interno di una rassegna di supporto alla didattica dei Centri Territoriali Permanenti (le vecchie 150 ore di "Mondi lontani mondi vicini") ci siamo sentiti dire dalla funzionaria che, siccome i soldi li mette l'assessorato, le proposte di rassegne devono essere controllate da loro (peccato che lo stesso non avvenga con le mostre di Sgarbi o gli orridi interventi di Baricco su Il Flauto magico) e così una collaborazione con notissimi intellettuali scrittori registe indiani ed esperti di India è saltata per fare spazio a una rassegna più amorfa ma di sicuro successo di pubblico, "così mi ha chiesto il mio assessore", disse la funzionaria candidamente. Lo stesso assessore è ben conosciuto negli ambienti della Torino Bene da quando era solo un oscuro maestro di scuola elementare, ha ottime entrature in quegli stessi ambienti popolati da carampane borghesi che regolano qualunque evento sui loro gusti radicalchic, ex sessantottine, ex femministe, ex tutto.

Il vero motivo del dibattere (da noi indicato già l'ultimo giorno del festival) è che non solo la formula del festival è invecchiata, non solo continuano a imperversare sempre gli stessi registi (e non parliamo solo di De Bernardi, ma dei soliti americani trascinati da Vallan o dei portoghesi di Turigliatto), ma i film estranei alle innumerevoli rassegne fanno cagare (a cominciare da quelli in concorso) e non si è più scoperto un talento da anni. Allora, o i due gestori dell'ultima gestione non sono quel fulmine divino di competenza che Rondolino e "il manifesto" vogliono farci credere, oppure non esistono più i presupposti per organizzare un festival che non sia solo per drenare denaro e inventare una manifestazione per esporre nani ballerine paillettes e quindi forse conviene stornare i fondi (evidentemente si possono scovare almeno 5 milioni di euro per una rassegna, dato che una fazione si vanta di rastrellarne 3 e l'altra ne ricerca 2) per sostenere il Museo del cinema e la sua programmazione sempre di alta qualità - comunque allo stesso livello delle rassegne festivaliere - visto che quest'estate nessuno degli enti e degli sponsor che sovvenzionano l'istituzione aveva ancora versato la sua quota dell'anno scorso.
Ma perché dovremmo continuare a tenere in vita il festival di via Monte di Pietà (mai la toponomastica fu tanto precognitiva)? Si tratta di accanimento terapeutico: stiamo aspettando un medico coscienzioso che stacchi la spina? Anche se il padre padrone imbizzarrito al pensiero di perdere in parte o in toto il suo strapotere trentennale - venendo finalmente giudicato un esubero come un qualunque metalmeccanico - lasciasse finalmente libero il campo, mancherebbe qualsiasi garanzia che il giocattolo non finisca nelle mani di qualche altro padrino, magari permettendogli di realizzare una versione epigona del mostruoso festival capitolino: questo non è fare un servizio al cinema, ma solo a determinati centri di potere.

E poi... In questo contesto di faida, il rischio, già ampiamente verificatosi, è che si avveri una miopia collettiva, direi ombelicale. Fuori dai denti, concesso almeno il beneficio del dubbio alla retorica del "festival che appartiene ai film e al pubblico", chi se ne frega (tra il pubbblico, variante pseudo-colta ma anche già marketizzata della ggente) delle beghe di gestione e quindi di potere? Ho la tendenza a pensare male (quella che altri definiscono spregiativamente "dietrologia"), ma non quella di esternare pubblicamente i cattivi pensieri, se non suffragati da riscontri; mi sembra però di poter tranquillamente affermare che la querelle Associazione/Museo non sia altro che fumo negli occhi che nasconde (ai miopi o ai ciechi volontari, a dir la verità) la vera questione di fondo, cioè la pesante ingerenza politica, che ovviamente tende ad autogiustificarsi e ad attribuirsi meriti remotamente passati e fortunatamente smascherati da note a margine come quelle di Roberto Silvestri in risposta all'assessore Alfieri, proclamatosi demiurgo e chef del primo Festival: per quanto possa sembrare strano allo chef, la ricetta del successo del festival, non è stata la sua idea "originale" (?? Un festival del cinema fondato negli anni Ottanta? Originale o residuale?) e la scelta di alcuni notabili cittadini a metterci la firma, forse c'è qualcosa di più, sicuramente oltre l'ego dell'assessore e forse anche oltre la persona dei notabili.
Se poi si legge l'intervista ("La Stampa", un giornale che si può definire in questi giorni "ultras" del cambiamento) all'assessore Oliva che fomenta la tesi e lo sviluppo del "conflitto generazionale", il sospetto che il fumo non sia... spontaneo si fa più concreto. Mettiamoci pure una bella dose di retorica pan-gianduiotta, quando si paventa uno "choc in città" per il rifiuto di Moretti. Sarà, ma non sono pervenute immagini di girotondi prima festosi e poi luttuosi per il mancato arrivo di Nanni sotto la mole (date un'occhiata al sondaggio de "La Stampa" al proposito). Invece, a sentire il sindaco Chiamparino, c'era tutto un fermento, "la città era con lui". Addirittura.
Quindi, parafrasando Oliva, "guardate allo squallido conflitto generazionale in corso e lasciateci lavorare in pace mentre cerchiamo di rendere migliore questo festival". Già, migliore... in cosa. Dove sono i contenuti? Lo ripeto in modo un po' più colorito, dato che sono leggermente scosso dal fatto che nessuno tra i diretti interessati o tra i giornalisti che hanno riferito gli eventi abbia posto la domanda: DOVE - CAZZO - SONO - I - CONTENUTI? No, perché per convincermi che non si stia trattando di una ridicola questione di potere (poco, dato che ci si trova comunque alla periferia dell'impero) e di un ricatto basato sull'erogazione dei finanziamenti (briciole rispetto al sistema-cinema italiano), del delirio di qualche invasato che nomina direttore uno che ha appena dato le dimissioni, dovrei essere informato su alcuni dettagli...
- Quali sono gli obiettivi CONCRETI che si desidera ottenere dalla "rivoluzione"? Evitare per favore la parola "rilanciare", tenetevela per giocare d'azzardo con i soldi vostri.
- Se a Moretti il festival piaceva tanto e ci era tanto affezionato (tanto da tornarci pure quest'anno), che cosa poteva fare CONCRETAMENTE per "migliorarlo"?
La verità è che queste risposte non esistono, nemmeno soffiano nel vento, perché l'unica pulsione assessoriale (nonché di governatori/presidenti/sindaci) è una coazione a ripetere eternamente la photo-opportunity per la città, già sperimentata con le Olimpiadi invernali (che ha ottenuto un bel rincaro dei trasporti pubblici per tentare di ripianare parte del debito). L'immaginario si ferma lì, all'idea di poter essere ricordati un giorno come chi ha "rilanciato" (turna!) l'economia torinese a botte di "eventi". Così continueremo a piazzare piloni colorati che ci doneranno certo un'identità, ma continueremo, malgrado la solerzia delle giunte, a trovare ristori chiusi durante i ponti, alberghi che candidamente raddoppiano i prezzi in giorno di fiera, impianti sportivi chiusi nei periodi di vacanza... Devono essere anche questi effetti di qualche "conflitto generazionale", ma l'assemblea permanente degli assessori ci sta già lavorando.
Infine, se non bastava l'esca della rissa istituzionale a coprire l'ansia egemonica (a volte mi chiedo se Gramsci sia peggio interpretato da Giovanardi o da certi "Democratici"), ecco l'altro diversivo: la grande chimera romana. Il motore primo delle risse e delle lotte di potere (più o meno generazionali) sarebbe dettato dall'insorgenza della mitica Festa di Roma. E' un po' come dire che potremmo passare alla parità con il dollaro, dati i grandi risultati dell'economia argentina... Ma si sa che attribuire la responsabilità delle calamità a cause esogene, meglio ancora se incontrollabili e semi-divine, aiuta (o dovrebbe farlo) a mantenere una certa coesione interna. Se poi quello fu un flop nessuno va a indagare, basta la sovraesposizione mediatica... un'altra droga, come quella che ha distrutto le menti migliori del Settantasette e delle Black Panther.

Restituiteci il movieclub di via Giusti, i personaggi sani e appassionati come Radicati, Copparoni, Valperga, Italo... tutti appassionati, immolati al malaffare trionfante e pressapochista... O almeno il Cuore muto di Sergio Pent.

adriano boano / marcello testi