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31/05/2006
La tragicità dell'obsolescenza senza scampo

Turno, il re dei Rutuli, era una figura tragica: nel momento in cui si contrapponeva all'affacciarsi del nuovo, rappresentato da Enea, portatore di istanze lontane, differenti, raffinate, era consapevole di rappresentare un mondo in dissoluzione, ma almeno riusciva a dare una forma all'antagonista: se lo "immaginava". Poteva preconizzare la sua epoca... e rispettarlo, passando la mano.

Il fascismo sorse insinuandosi in una contingenza di regole non più riconosciute: la società giolittiana era ingessata in rituali che non "rappresentavano" ormai la maggioranza e la reazione alle lotte operaie andava in cerca di nuovi formalismi per opporsi all'emancipazione. Questo è risultato evidente al momento della sua dissoluzione: lucidamente si trova - verbosamente e con i modi anacronistici del film didattico degli anni Settanta - in La Villeggiatura di Marco Leto (1973), quando le molte componenti dell'antifascismo confinato a Ponza (o a Ventotene, il film non lo specifica) si confrontano in una sorta di aula scolastica all'aperto, inscenando sugli scogli un dibattito che serve a "rappresentare" ogni diversa posizione nei confronti del fascismo. Lucido brano di cinema didattico, ma senza che la forma consenta di scattare un'istantanea immediatamente comprensibile dell'arma micidiale di cui il capitalismo si era dotato per evitare una ripetizione del Biennio rosso: il fascismo fu un germe incistatosi al culmine di una sconfitta del radicalismo di sinistra, capace di interpretare in chiave autoritaria le nuove regole totalitarie, la cui forma di "rappresentazione" proveniva dall'interno stesso del regime: adunate, prosopopea del capo, blandizie e minacce, spettacolo e pagliacciate... l'armamentario populista: un po' come ora è il ruolo assunto da ciò che si riassume nella concezione di una televisione asservita.

I nostri maître à penser non sono riusciti a preconizzare il berlusconismo e nel "rappresentarlo" sui loro "scogli" di una Villeggiatura alla fine della sua parabola non hanno trovato di meglio che riprendere - senza avere la stessa allucinata ispirazione - il Buñuel finale, riproponendo gli scenari destabilizzanti del Grande Magazzino in fiamme tra le bombe: l'ultima sequenza girata dal grande aragonese anarchico.
Ma il berlusconismo e la sua metafora calcistica (non è un caso il nome da stadio che si è dato il movimento più eversore dopo la P2 che l'Italia repubblicana abbia conosciuto) si sono incistati su un'altra assenza di regole, quella del freno alla "rappresentazione" di se stesso: ha dilagato nel momento in cui più nessuna immagine, più nessun argine dell'immaginario collettivo poteva bloccare il repertorio del qualunquismo che ristagna nel ventre molle di quel 50 per cento di italiani che da un secolo a questa parte sono sicuramente fascisti senza magari saperlo. Ecco perché quel Nanni Moretti, lucidissimo nell'analisi meno nelle conseguenze di questa, in quell'auto, in controluce, più che Mabuse è il dottor Quatermass: non riesce a essere davvero inquietante, perché il modello, il caimano originale (che si è vantato di esserlo in campagna elettorale, presentandosi: "Eccomi, sono il Caimano") ha fatto di peggio, addirittura ha puntato l'indice alla telecamera minacciando (25 maggio 2006) il golpe, descrivendo un "quadro" ben più destabilizzante della scalinata con la presa del Palazzo di giustizia del Caimano. Rimane l'intuizione di additare a noi, gente di sinistra che quel mostro è riuscito nell'intento di cambiare pure noi e non solo i suoi.
L'euforia del caimano è quella di violare le norme, non solo per salvarsi, come poteva essere all'inizio, ma l'infingarda euforia di violare qualunque regola per il gusto di farlo e crescere a dismisura, sempre di più e rimanere unici e padroni di tutto in una bulimica coazione a fagocitare ogni aspetto della società, da cui sorge il bisogno di controllare le "rappresentazioni" del proprio mondo, informando di sé persino i propri antagonisti, ridotti a pallido specchio di quell'inconsistente, vetusto, reazionario universo di valori, spacciato per nuovo, ritinteggiato in modo che anche chi punta il dito per dire che il re è nudo e anche un po' nano e pataccaro, fa il gioco del piazzista stesso, usando il suo linguaggio. Adeguandosi viene fagocitato, senza lasciare più alcuno spiraglio fuori controllo.

Tutto questo Moretti lo ha capito, lo ha elaborato, forse lo ha anche teorizzato nel film sui guasti che il berlusconismo ha potuto arrecare alla nazione, incidendo profondamente sui singoli individui... non è riuscito a sfuggire alla trappola mentre cercava di stigmatizzarla, proprio lui, così interessato allo sport e che dello sport aveva fatto metafora (Palombella rossa) prima che Berlusconi rendesse massiva questa intuizione, non ha tenuto conto di come il tifo agonistico sia l'esemplificazione popolare del modo non illegale - ma certo non corretto - di falsificare la realtà, ma al limite della legalità, in modo immorale e sporco, ma non perseguibile, cartina di tornasole del livello di corruzione (nel senso, prima che giuridico, etimologico del termine, che offre l'immagine di erosione e svuotamento dall'interno: far marcire lasciando le paiette all'esterno) non riconosciuto ufficialmente ma percepito come prassi normale, che il "mariuolo" Moggi sia il più tipico muro di gomma innalzato dall'intreccio di sport e autoritarismo, l'altra faccia dell'assenza di regole e del sistema televisivo. Ma questa sospensione di regole è proprio il fondamento su cui si basa l'autoreferenzialità mussoliniana e l'ipervisibilità berlusconiana che droga le immagini e falsa la "rappresentazione" di una realtà irraggiungibile nel gioco di rimandi all'ennesima potenza di questo sistema di specchi deformanti. Lo stesso sistema che Moretti inscena all'inizio del film, acquisendo da generi diversi, alieni al suo universo di riferimenti e che ingloba, andando a incidere sulle radici di quell'immaginario che ha poi prodotto l'attuale gusto, quei film dei tardi anni Settanta, brodo primordiale dell'attuale superficialità, insieme alle trasmissioni populiste di Canale 5 che il mitico pretore Casalbore (prototipo delle toghe rosse?) tentò di bloccare, prevedendo la deriva populista ed eversiva che porta oggi, 25 anni dopo a rischiare la Vandea di un leader che non accetta la sconfitta, probabilmente perché con tutti i brogli da lui fatti, e le "carte false" di una campagna elettorale che ha estenuato anche chi a votare non va per scelta anarchica, non ritiene possibile di aver davvero perso.
Come si vede i modi di dire che finora sono apparsi qui tra virgolette racchiudono rivelazioni, "immagini che svelano" (nel senso che sollevano i veli sotto cui si celano i meccanismi di manipolazione dell'opinione): sarebbe sufficiente invertire la transizione dall'immagine alla parola per ottenere immagini chapliniane che rimangono impresse (come il rapporto di un mappamondo e un dittatore al cospetto di una scrivania di manager): serve una nuova "Costituzione" di immagini, che si sottragga sia all'abbraccio dei modi televisivi del berlusconismo, mortifero (in quanto ormai superato anche nella percezione della società che ha creato il berlusconismo), sia a quelli percepiti come stantii che esistono almeno dal Sessantotto.
A questo proposito Bellocchio in Il regista di matrimoni è più esplicito di Moretti, forse più consapevole, certo meno coerente. Tutto il film si regge sulla solita miscela di sguardo ombelicale sui temi del suo cinema - la consueta condizione di crisi esistenziale del protagonista dubbioso sulle convinzioni precedenti, mediata dalle metafore letterarie e dalla parodia saccente de I promessi sposi (con l'autoironica anticipazione della critica che si tratterebbe di un testo obsoleto) - e contemporaneamente una versione aggiornata del metalinguismo, che analizza il proprio ruolo, ponendo al centro del film il mestiere di regista (con lo stantio uso delle immagini video - chissà perché in bianco e nero), esattamente come fa Moretti con l'alter ego di Orlando-regista: entrambi i registi italiani presenti a Cannes si rendono conto del loro ruolo, Bellocchio arriva a mettere in scena la morte falsa del Regista, salvo poi recuperarlo con amaro sarcasmo - "In Italia comandano i morti" è la battuta di Osvaldo Smamma che vaticina le istituzioni mummificate del dopo-voto. Peccato che poi non traggano le conclusioni e non si facciano da parte, non avendo palesemente nient'altro da dire se non che l'intera società, i suoi dirigenti e i suoi intellettuali devono operare ancora quest'ultimo gesto dimostrativo della propria aporia, ribadire un'ultima volta che rappresentano una concezione di vita e cultura vecchie e sparire... senza Volver come revenant, un ruolo di gran moda in questo periodo.

Il vecchio da superare di cui si parla qui non è quel bel gusto d'antan, il vecchio dei film ad esempio di Tony Gatlif, per cui si può solo provare nostalgia per figure come Gaspard & Robinson, per quei luoghi, gli aromi che riaffiorano alla memoria e li senti in bocca per averli esperiti se hai più di quarant'anni, per averli "assaporati" anche in altri film, amati nei libri, ad esempio nella lettura di Izzo: ecco quel bel tempo andato di rapporti libertari tra compagni di esistenza, di rispetto e di gesti simbolici, improntati a ciò che è eticamente giusto (non ci saremmo commossi un tempo davanti al gesto di Voigt che non fa uno sprint e con una pacca al compagno di fuga spagnolo al Giro d'Italia, lo lancia verso il traguardo, quando la nobiltà del gesto non era ancora rara avis al tempo del colera berlusconide, un gesto che dimostra quanto nonostante l'epo il ciclismo non è ancora del tutto berlusconizzato come il calcio, ma anche come l'etica sia cinematografica)... non è quello in discussione, perché il cinema italiano non lo ha mai fatto proprio, essendo un cinema di borghesi intenti a riandare alle loro esperienze... fatte di questi travagli: non è un caso che uno dei primi film di Moretti, ancor prima di Io sono un autarchico, fosse un super8 (Come parli frate?) che reinterpretava proprio il romanzo manzoniano e vedeva Moretti nei panni di Don Rodrigo. Per entrambi I promessi sposi sono un pre-testo che sta alla radice dell'italianità, un pretesto parodistico che dovrebbe mettere in ridicolo quelle radici, ma non riesce a uscirne e anche la struttura narrativa permane non più nell'impianto, ma nelle allusioni riattate senza che vengano smontate le architravi. Bellocchio non bada ai personaggi manzoniani che si mescolano nei caratteri del film e in quelli del film nel film (che ricalca quel gioco di specchi postmoderno desunto dal gusto falsificato televisivo e che è il mondo vero: tanto che i diritti televisivi del calcio sono l'ossigeno che ne consente la sussistenza), preferisce appropriarsi delle allusioni a un testo famosissimo piuttosto che reinterpretarne le situazioni - una che però rimane invariata è proprio quella di don Abbondio del titolo di Moretti (non a caso il carattere italiano più diffuso). Nella sua schizofrenia si direbbe che Bellocchio si immagini meglio rappresentato dai panni dell'Innominato, forse perché la Liberazione di Bona (l'Italia?) è puramente ideale, neanche da prendere seriamente in considerazione e allora tanto vale fare scena con citazioni dalla storia del cinema, visto il pretesto cerimoniale dato dal matrimonio, mostrato in tutti gli stereotipi possibili, senza mai sceglierne uno, magari diverso, nuovo, originale... Deve esserci una congiura in atto, non dichiarata e probabilmente anche inconscia, se su ogni schermo televisivo o cinematografico non fanno che comparire storie e personaggi dell'immediato passato, come un enorme tappo che impedisce di elucubrare alcunché di nuovo. E a quel mondo finito, seppure continui a riciclarsi, appartiene pure questo cinema, perché figli del berlusconismo o suoi attuali detrattori, comunque tutti hanno attinto alla stessa greppia, come per l'altro periodo fascista; l'epilogo ancora non lo conosciamo, ma prima - e quindi in modo meno cruento - o poi (e allora voleranno davvero gli stracci) si farà palese il superamento di questi 25 anni trascorsi all'ombra del berlusconismo, prima latente e gestito per interposta persona, poi le lobbies hanno sdoganato il peggio delle più becere turpitudini, al punto che Pippo Baudo e il compagno Oscar Maria Scalfaro diventano baluardi della democrazia, rendendo surreale l'insieme dell'epoca a cui ci tocca assistere. Prima o poi si renderà sempre più urgente la proposta di nuove poetiche e Weltanschauung: più trascorre il tempo nel vuoto riempito da strepiti fascisti o nostalgici e maggiore sarà il trauma del passaggio; e in questo Moretti è più lucido, mentre Bellocchio si trastulla coi giochini metalinguistici; usiamo loro due come metafora di due approcci apparentemente progressisti e antifascisti dietro ai quali disciplinatamente si allineano un po' tutti quelli che ragionano... l'altra metà di Italia è fascista da sempre e sarà difficile che progredisca.

Infatti non è scontato che il nuovo che auspichiamo per uscire da un quarto di secolo asfittico sia per forza migliore di Calderoli (peggio non può essere, ma forse c'è il rischio che possa essere uguale). Bisognerà vedere chi arriverà per primo a interpretare la nuova condizione, i nuovi mezzi di espressione, le nuove forme di comunicazione: se saranno di nuovo "loro" ad appropriarsene, si potrà solo sperare in un ulteriore scollamento (i giovani per fortuna non guardano tv); se ci sarà un nuovo movimento dal basso più attento al linguaggio (i casseur in Francia hanno dimostrato di poter dialogare, dopo la bella esplosione camusiana di hommes revoltés d'inverno, con altre insoddisfazioni giovanili in primavera), allora si dovranno fare i conti con i residui, orridi, modi di leggere il mondo e proporlo e ricominciare a rendere tabù qualsiasi parola d'ordine riconducibile ai vecchi arnesi del fascismo (per usare un'ultima volta questo linguaggio da soffitta polverosa).

Ma un altro problema si affaccia e questo probabilmente se lo è posto la fazione bellocchiana, la domanda è: ma le regole funzionano o non è più auspicabile un sistema privo di ogni regola? Perché, paradossalmente, "loro", i fascisti, - per la seconda volta - hanno creato il loro sistema di riferimenti fasulli, appellandosi a regole nelle quali si era andato creando un buco che permetteva di nuovo la loro esistenza, nonostante la Resistenza avesse cercato di prevedere ogni loro assalto. Allora c'è un nuovo problema: è giusto guardare al passato, e con quali mezzi di analisi, per immaginare ogni possibile ricaduta nel fascismo, oppure conviene consegnarci allo spirito che si sente nell'aria (intendiamoci: è solo una speranza) pronto a dare una ventata di novità dotandolo solo di anticorpi per evitare il totalitarismo? Quello che pare urgente anche nel cinema sembra il dovere di occupare i vuoti che le "catastrofi" (Renée Thom) lasciano, colmandoli con proposte innanzitutto culturali (e quindi coinvolgenti il maggior numero di persone), in modo da evitare che di nuovo per il prossimo ventennio si debba sopportare questa vandea reazionaria.

In realtà, manca un Turno, re dei Rutuli, capace di inscenare l'ultimo atto, in cui consumare la sua maschera, e poi consentire l'emersione di nuove formalizzazioni del mondo... però, ed è peggio, manca anche un Enea che incarni la capacità di proporre un nuovo mondo, o meglio la sua rappresentazione.

adriano boano