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3/03/2005
Siamo in carenza di Eresia (e brancoliamo nel buio immersi in una luce accecante) #5.
3 marzo 2005: Giuliana, Shylock e...
il buio dei Territori occupati

Il potere agisce per sottrazione: ci stanno sottraendo spazi, respiro... tempo. Luce.

Le luci si fanno sempre più artificiali e illuminano paesaggi desolati. Prima era occupazione dell'immaginario, ora il pensiero dilagante neocons punta direttamente alla sottrazione dei diritti, a cominciare dagli spazi a disposizione dell'immaginario... e quel lemma - "occupazione" - richiama subito alla memoria quello che coloni invasori stanno facendo in Palestina sulle terre altrui.


Private e Merchant of Venice uniti in un pezzo che pensavamo di chiamare "Apologhi morali"... non sappiamo se il fatto che Shylock sia diventato il prototipo dell'ebreo nell'immaginario razzista dell'Occidente abbia inciso sulla scelta di legare questi due film, dove quello di Saverio Costanzo spiega l'ingiustizia dell'occupazione che concerne la libertà di movimento e la progressiva sottrazione di luce e spazi (anche nel quadro della pellicola) a cui si contrappone il preside interpretato da Bakri, che fa "resistenza" passiva, non cade nella trappola della spirale di violenza, ma resiste alla tentazione di sottrarsi alle angherie: rimane nella sua casa, nella sua terra, come la moglie del fedahin di altri decenni meno religiosi descrittii in La porta del sole.

Nel film shakespeariano sembra che Radford accentui la scelta di sottolineare l'ingiustizia sottesa sempre - a prescindere dalla origine dell'usuraio - alla goffa pretesa della Legge di valere per ogni situazione - goffa, ma anche insensata, inadatta e fatta di sotterfugi, crudeltà e vettore dei più bassi istinti umani -, che però è anche quella che i cittadini si meritano e che adoperano per umiliare e vendicarsi, o per sfruttarne le pieghe recondite in modo da esaltare ferocemente la propria astuzia, fino alla lenta chiusura del portone della sinagoga in faccia a un sempre più ingobbito Shylock: effetto dell'applicazione dell'intelligenza.

La progressione di questa riduzione lo conduce ad abitare un ambiente sempre più ridimensionato, come se prima gli fosse stato ridotto lo spazio che lo schiacciava verso il pavimento (le riprese dal basso che lo vedono occupare una porzione di spazio lasciata libera dal pavimento in primo piano durante il processo si alternano a quelle in cui invece i gentili sono visti a figura intera o addirittura occupano - come l'ultraterreno deus ex machina Porzia - l'intero quadro) e poi anche in senso orizzontale: quanto fosse limitato e infine chiuso ogni spiraglio, al contrario di quello che avviene alla figlia di Shylock, sottrattasi alla sua sorte, accolta dal mondo di Porzia, aperto, solare, in un grandangolo specchiato dal chiarore della laguna solcata da barche.

Poi è arrivato il video di Giuliana che riassume in lei tutto questo lento chiudersi (e solo metaforicamente la stessa tenebra cade su di noi con la totale assenza di cronisti nei luoghi dell'azione), incorniciato nella scarna cornice di una parete bianca, che suonerebbe come beffarda nemesi, se non assumesse i connotati di tragedia shakespeariana in quel paradosso che la vede prigioniera di quelli che ha sempre difeso e che la guerra ha confuso.

Potere è anche - e forse ne è proprio la sua massima rappresentazione senza con questo compendiarne le forme - quello che si arrogano i rapitori in generale. Infatti in quella situazione risulta più evidente la subordinazione, l'umiliazione a cui è sottoposta la vittima, rispetto ai modi del vero Potere: due facce della stessa medaglia. Il potere dei militari israeliani o dei borghesi veneziani dei tempi del Doge è nascosto dalla tenebra che poi ammanta tutto, mentre quello dei carcerieri di Abu Ghraib o dei rapitori di Giuliana Sgrena è d'effetto perché evidenziato, sparato in faccia nelle sue forme più bestiali, che sono però solo punta dell'iceberg del vero terrore, quello che si svolge senza la videocamera a testimoniarlo, registrandolo nel nitore di un'immagine sovraesposta solo per far sentire più forte il buio in cui subito dopo sprofonda di nuovo Giuliana. Appunto lasciandoci all'oscuro ad almanaccare in un immaginario offuscato e ridotto; incarcerato. Infatti PierLuigi Scolari le scrive: "Giuliana, nel video mi sembravi un uccellino in gabbia...", ma la gabbia stavolta non c'era come invece in altri video riguardanti precedenti rapimenti di occidentali, eppure erano evidenti sbarre immaginarie... che il suo compagno ha captato immediatamente - poiché gli impediscono di abbracciare la "sua" Giuliana - ma che si stanno alzando attorno a ciascuno di noi.

L'inviata de "il manifesto" era stata anche in terra di Palestina.
I soldati nuovi venuti si avviano verso la serra di Private, li seguiamo dalla finestra, attenti agli sviluppi... forse - come prima - qualche evento esterno, fuori campo, da un altro buio rispetto a quello che fin dall'inizio del film di Costanzo strozza tutto ciò che è in campo (una tenebra che caratterizza la maggior parte dello schermo), interverrà, impedendo che si consumi la vendetta... Invece un altro buio inghiotte il movimento di macchina che anela a dissetare l'ansia, a risolvere temporaneamente la tensione con un gesto dirompente, lo interrompe, sospendendolo per sempre. Ed è di nuovo una percezione claustrofobica quella che si collega alle poche inquadrature immerse in una luce diffusa di Private: quelle della serra, trappola allestita che potrebbe esplodere nella sua vendetta, ma soprattutto ambiente chiuso, opaco, non trasparente, che imprigiona un mondo ridotto a microcosmo sottoposto alla violenza degli invasori; protettivo nella sua funzione e in quello che rappresenta, che invece la chiusura del mondo esterno deraglia dalla sua destinazione d'uso, rendendolo gabbia in cui chiudersi e da cui dirompere in modo esiziale.

Manca la catarsi - in un senso e nell'altro - e allora si rimane infitti nell'orrore.

L'orrore del più forte (genitivo soggettivo), che controlla l'informazione e blatera di "mitraglieri" di mestiere che ossimoricamente diventano "costruttori di pace", quell'informazione del potere che si aggrappa pervicacemente alle definizioni care al nazifascismo, della cui cultura gli attuali governanti sono diretta emanazione, e quindi chiamano terroristi (Achtung, banditen!) i resistenti e flagellano chi indica il re nudo chiamando "guerriglieri" quegli stessi confusi combattenti, anche se non hanno - ancora - vinto, come fu per i terroristi Ben Gurion David, Rabin Itzhak, Begin Menahem... Giap, Ho chi Mihn... Pertini Sandro, chiamati terroristi dal comando britannico in Palestina fino al 1946 o dai marines fino al 1975 o dai nazifascisti fino al 25 aprile.

Anche l'orrore del più debole (genitivo oggettivo), che si crea una propria visione parziale - solo fino a un certo punto forzata dall'oppressione e in parte incompleta pure per inferenze proprie che occludono la percezione di tutte le ragioni di un comportamento - infiggendosi in una propria oscurità indotta dall'incapacità di capacitarsi che quell'aguzzino gli stia praticando quell'ingiustizia: è la condizione di chiusura del ragazzino palestinese che si bea di tutte le immagini delle televisioni nazionaliste integraliste, scatola televisiva autorefrenziale (come una serra in cui la coltura si compone del virus dell'incomprensione) dentro alla scatola altrettanto chiusa della stanza-cella in cui i militari israeliani lo tengono recluso, ma anche armadio da cui lo spiraglio di luce illumina la tenebra del pregiudizio, offrendo qualche elemento in più di valutazione del nemico.

Il film genera anticorpi opposti ai metodi adottati da fanatici come Pezzana, Fallaci, Nierenstein, o da integralisti come Socci, Buttiglione, Baget Bozzo: produttori di commenti provocatori e verbalmente violenti, attinti a un presunto comune sentire fatto dei più vieti e superficiali luoghi comuni, sparati in faccia al pubblico sulla scorta di parziali presunte verità; o, all'occorenza, elargitori di sagge massime gesuitiche altrettanto piene di oscurantismo. Riportando i fatti deformati da una militanza cieca (appunto, priva di luce): se a essere uccisa è una bambina israeliana diventa un omicidio perpetrato da bestie, se a rimanere sotto il fuoco di Tzahal è una bambina palestinese, diventa il numero di un bollettino scarno: il risultato è che si rinfocola qualsiasi reazione violenta...

Il bel film di Costanzo risponde al bisogno di eresia, mostrando un padre colto e deciso a non farsi ridurre al rango di profugo ("se scappi una volta sarai costretto a farlo per sempre") e sua figlia, altrettanto decisa a reagire, più impulsiva, che però la curiosità porta a conoscere il "nemico": basta questo a rendere umano l'Altro, al punto da poter sognare di alzarsi nella notte, bere un bicchiere con l'occupante la propria "casa", oppure scrutare Tzahal e le sue molte anime da un armadio. Che strano: la Luce è laica e spazza la tenebra delle guerre di religione volute da pazzi compassionevoli con il dito sul grilletto, sceicchi invasati o rabbini colonialisti; il terrore è il buio che si porta via la facoltà di parola della bambina più piccola di Bakri-padre, rimasta al di là della porta, della soglia dell'angelo sterminatore che ogni notte segna il territorio del coprifuoco. Ecco, quella stessa luce, se troppo intensa, fa l'effetto opposto e inverte più volte i significati delle parole di Giuliana, che dovrebbero essere così evidenti in quel nitore privo di qualsivoglia oggetto scuro, frapposto tra lei e l'obiettivo che la scruta e documenta tutte le sue parole... eppure i suoi gesti sottomessi a censure e autocensure, le parole dette e i loro significati reconditi rendono il messaggio e l'immagine stessa oscuri, imperscrutabili.

Ma soprattutto, l'inquadratura è apparentemente irrazionale (eppure nessun giornalista ha rilevato questa scelta prossemica): occupa un sesto scarso del quadro a disposizione, sopra e a fianco di lei un enorme muro di bianco: è sepolta dalla luce, schiacciata da questa come Schylock lo è all'inverso dal buio che sorge dal pavimento, che lo segrega nella parte alta dello schermo, preparandogli la disfatta che sembra provenire da là sotto. Perché, in entrambi i casi, tutto quello spazio abbandonato al vuoto? "Lei" che invita i giornalisti ad andarsene dall'Iraq è incredibile, almeno quanto il suo compagno che fa uno spot a favore del sottosegretario Letta... tutto sotto riflettori potenti che non tralasciano alcuna ruga, ma impotenti ad andare oltre le scarne immagini ambigue; "lei", una donna forte, ridotta a singhiozzare implorante nella luce spietata che le nasconde anche l'ombra, sbiadita insignificante memoria di un corpo tangibile e non figurina ritagliata nel nulla che l'ha inghiottita, privandola della sua parola - come la bambina di Private, sparita nel buio - attribuendole parole da ventriloquo, mani giunte, movimenti innaturali, a lei conferiti dal rollio dell'operatore che evidentemente non usa un cavalletto (con la sua fissità darebbe uno spazio fisso e una collocazione precisa alla figura che invece così fluttua, come nelle ultime immagini di Baldoni, freelance e quindi senza nemmeno una redazione alla spalle a mantenere "accesi i riflettori" sulla sua sorte) e quelle richieste di aiuto in sostituzione dei lucidi reportage di denuncia che le sono propri completano il quadro.

La messinscena rende credibile tutto ciò perché l'inquadratura la riduce a figurina appena riconoscibile - ed è sicuramente lei, anzi, no il suo simulacro - schiacciandola da tutte la parti con quel bianco insostenibile quanto il buio del film di Costanzo che viene voglia di scostare con le mani da davanti agli occhi che non riescono a percepire, là come qua, non sanno capacitarsi dell'unico sentimento che sorge in entrambi i casi da quello che proviene da "dentro" allo schermo: angoscia prolungata e priva di scappatoie. Porzia del film shakespeariano di Radford nella sua lucida intelligenza è sempre inondata di luce - tranne quando è en travesti - che per lo più le proviene da dietro, quasi che la luce se ne volesse riappropriare, ma così finisce con l'esaltarne i contorni e conferirle uno spessore ultraumano; ciascuno in questa riduzione cinematografica ha qualche grettezza: lei rende succubi non solo con la bellezza ma anche con l'astuzia e, mettendo alla prova il marito, dimostra proprio con la sua apoteosi di essere paradossalmente "umana", non sottraendosi al bisogno di strafare: è il deus ex machina della Tempesta e di quasi tutte le commedie shakespeariane: estranea alla vicenda, la risolve per questa estraneità, ma poi rimane della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni... e lascia i mortali nei loro limiti regolati da una Legge farsesca.

Al contrario dell'eccesso di luce del video di Giuliana o del buio della situazione palestinese dove si annida la tragedia umana trasfigurata da una sostanza di cui sono fatti gli incubi, che finiscono con il travolgere anche Al Pacino/Shylock, ammantato da quella luce malaticcia delle calle di Venezia, quel gelido azzurrino che sembra avanzare dai canali, come una nebbia perturbante, quasi un'ancestrale Fog carpenteriana, Porzia è algida e distante come la glaucopide Atena omerica, a noi umani non è mai data la luce "giusta", ma solo quella falsata, scelta dall'oscurantismo religioso; invece lei si sceglie sempre quella luce che la colloca in un universo altro e se si immerge nella tenebra oscurantista dela Legge e della disputa innanzitutto religiosa, lo fa travestendosi e trionfando. Apologhi, dunque: il Merchant of Venice di Radford sottolinea due aspetti: quello più superficiale dell'antisemitismo, che però non è coerente, rimane ambiguo volutamente; invece quello della legge sempre insensata permane costante come sottotraccia dell'intero impianto. Sotto ogni aspetto la si guardi, il dispositivo della Legge sembra uno strumento di afflizione per il cittadino, sia esso il cittadino integerrimo - e un po' antisemita - Antonio, sia esso lo "straniero" Shylock, buggerato dalla sua acredine, dall'avidità e dalla sua determinazione a "farsi" giustizia da sé.

Entrambi rimangono estranei alla speciale luce del finale, infitti nelle tenebre della legge del Tribunale del doge, arcaica come la luce intensa del Tribunale-video dei mujaheddin iraqeni, o delle tenebre bibliche in cui agiscono come ombre i militari di Tzahal... sullo sfondo soltanto l'oscurantismo delle religioni, di tutte le religioni. E noi sentiamo sempre più impellente il bisogno di sana eresia, unica possibilità di salvezza dalla progressiva e lenta - come correttamente avviene nel film di Mueller, The Assassination con Sean Penn - sparizione: la dissoluzione del soggetto, nemmeno più reificato come nelle precognizioni di Baudrillard, ma proprio dissolto dopo che la sua manifestazione da essere vivente è diventata l'Esistenza in video come stigmatizzato con la solita raffinata ironia dal titolo di prima pagina de "il manifesto" del 2 marzo a commento del video di Florence. Un film di "sottrazione" questo The Assassination fatto al settanta per cento di primi piani, quelli negati a Giuliana, perché ancora con un suo spessore umano (quello che paradossalmente viene sottratto a Florence Aubenas proprio dal primo piano raggiunto poco a poco, spietatamente, che la disumanizza rispetto a quello che era, restituendola diversa dalla donna bella e sorridente con gli occhi blu delle foto di "prima"). A quest'uomo mancato vengono sottratti man mano famiglia, lavoro, parenti, amici; il mondo che lo circonda pretende persino che si cambi il suo aspetto fisico fino a sottrargli la dignità di essere umano, obbligandolo a mentire, fino a farlo piangere davanti a tutti, proprio come le due giornaliste rapite. Il personaggio di Penn è un uomo che sembra che chieda scusa perché esiste (anzi lo fa in continuazione), alla ricerca affannosa di un gesto che lo faccia ricordare, ma anche questo gli è sottratto e qui sta la differenza dalle due donne, ma non lo distingue dallo spettatore; il mancato dirottamento lo trascina nel nulla di un telegiornale che sua moglie non sentirà nemmeno perché al lavoro come tutti i giorni e il suo amico più caro sentirà distrattamente perché la vita continua. E il presentatore del tg sottolinea che non si conosce il perché di questo gesto di un folle, mentre tutto il film, che qui finisce per svelare di essere fatto dal punto di vista dell'uomo ridotto a nullità (il modo di camminare incerto e la fatica di passare attraverso le porte, di passare da uno spazio all'altro. La sua bruttezza davanti allo specchio, bruttezza di uomo comune: pancetta, ciabatte, barba lunga, tutto normale insomma... che nemmeno lo specchio restituisce perché l'inquadratura è ripresa lateralmente e noi lo specchio non lo vediamo), è incentrato sulla motivazione del gesto stesso.
Uomo mancato e inascoltato: i nastri che registra a Bernstein in onore della sua musica "onesta e pulita" vengono spediti alla fine ma poi non se ne parla più, gettati nella buca della lettere potrebbero anche sparire nel nulla. Un uomo che si rifiuta di allinearsi al sistema, uno che piangendo per la rabbia urla alla moglie che lavora in un bar vestita da coniglietta "guarda come ti fanno vestire per lavorare" o che si chiede come l'amico nero non si ribelli ai maltrattamenti dei bianchi. Quei nastri non sono visti da nessuno, mentre quelli di Giuliana e Florence sono passati da tutte le tv del mondo e il loro messaggio rimane totalmente oscuro. L'effetto risulta identico: la dissoluzione del soggetto.

Infine dunque, il lento ruminare di questo editoriale, ha incrociato anche il video di Florence, laconico e speculare a quello di Giuliana, il cui unico punto in comune è nelle caratteristiche fisionomiche del soggetto, nel livido colore grigiastro di una pelle rinsecchita e reclusa, nascosta alla luce. Sottratto alla vivificante e non "artificiale" luce del sole. Diverso è lo sfondo, un rosso opaco che in altri contesti si potrebbe definire elegante e che crea un contrasto stridente e di sicuro effetto con la figura straziata in primo piano. Ma quello che colpisce è il movimento di zoom che a un certo punto, a un punto ben particolare del breve appello, "chiude" sul volto della giornalista, per poi "aprire" di nuovo, prima del taglio finale; il momento è quello della chiamata in causa diretta di un personaggio politico francese, Julia: un "interventista" maldestro che a momenti, durante il precedente rapimento di Chesnot e Malbrunot, era riuscito a comprometterne la sorte.

Questo appello surreale a un inaffidabile, unito al goffo tentativo di drammatizzazione operato con lo zoom, getta una luce sinistra sulla messa in scena. Tutto sembra andare in direzione di una rappresentazione che ha perso la propria referenzialità convenzionale (il comunicare "qualcosa", eventualmente indipendentemente dalle parole usate dal soggetto - per esempio, nel caso di Giuliana, le parole incongruenti con la personalità avevano comunque una funzione fatica di mantenimento del canale di comunicazione) per diventare un agghiacciante teatrino di marionette surreali, quasi un esercizio di stile in pura "maniera Abu-Grahib".

Epilogo (parziale) - 4-5-6/3/2005

Nell'ultimo video, Giuliana, inserita nella composizione di una tavola imbandita di frutti, è molto più reificata, un oggetto - come Florence lo è in misura minore già nel primo - ridotta a simbolico omaggio: è restituita come se fosse un pacco dono, come se facesse parte della confezione, un frutto tra gli altri, un oggetto nella natura morta, all'ombra degli altrettanto inanimati guerriglieri ("il rosso e il nero")... Appena uscita, in transito in una terra di nessuno che immaginiamo ancora accecante, torna ad essere soggetto e forse per questo diventa pericolosa agli occhi di chi ha attentato alla sua vita.

Fotogramma video liberazione Giuliana Sgrena Fotogramma film di Kusturica: La vita è un miracolo

Interessante come si possa leggere un'urgenza di essere lasciati soli a vivere e descrivere l'uscita dalle rovine in quell'azzeramento di informazioni contenuta nei video e quanto questa urgenza sia profondamente simbolica nello scarno allestimento dell'ultimo video di Giuliana. Lo stesso messaggio si coglie nella separazione tra la figura di Florence (e in fondo anche di Giuliana) dal contesto in cui sono ritagliate. Ne sono espulse, non ne fanno parte perché sono elementi alieni che devono rimanere tali nelle intenzioni dei registi del video: questo è confermato dalla scelta di Giuliana di non tornare, perché non può fare il suo lavoro; ma anche - ha detto - perché gli iraqeni non vogliono testimoni del loro passaggio epocale. E' anche comprensibile che le nazioni non vogliano che qualcuno di estraneo racconti la loro storia nel momento in cui avvengono i rivolgimenti, anche se questo qualcuno abbia innanzitutto l'intenzione di salvaguardare l'informazione non-embedded e quindi sostanzialmente l'obiettivo della loro sicurezza di fronte allo strapotere militare degli imperialisti petroliferi. In fondo, il neorealismo italiano nasceva dalla stessa esigenza di ricucire un tessuto connettivo nazionale.
E' un lampo, ma questa considerazione che può gettare luce su quell'abisso di tenebre e non detto, o meglio nascosto, che proviene dalle immagini che abbiamo qui analizzato, si impone ascoltando "I luoghi della memoria" (6 marzo 2005, radiotre, ore 15): Edoarda Masi parla della situazione in Cina, a Shanghai in particolare, al momento del golpe contro la Banda dei Quattro: "Non volevano testimoni", dice la studiosa sinofila, spiegando l'atmosfera nell'autunno del 1976, alla morte di Mao. Ecco, la stessa cosa avviene ora in Iraq: la domanda degli iraqeni è quella di non avere nessuno che insegna a loro quale dovrà essere la loro storia futura... e neanche sentono il bisogno che qualcuno usi in loro vece linguaggi, parametri, parole e pensieri estranei alla loro cultura per descrivere - e quindi condizionare in qualche modo, colonizzare - la situazione in evoluzione frenetica e, per forza, violenta. Quei linguaggi (almeno, per quanto ci è dato sapere, quelli visuali) sono da loro già padroneggiati con sufficiente competenza, che permette loro di costruire e manipolare una storia.