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6/11/2004
Siamo in carenza di Eresia #3e.
Bambini "liberati" in galera

La loro immagine neorealista come indicatore dello scivolamento in un'epoca di guerra.

(Terrorismo religioso e Presidenti compassionevoli)

PICCOLI LADRI di Merziyeh Meshkini
"Sag-Haye Velgard", Iran, 93'

Sceneggiatura: Marziyeh Meshkini - Scenografia: Akbar Meshkini -
Fotografia: Ebrahim Ghafouri - Musica: Mohammad Reza Darvishi
Interpreti: Gol Ghoti, Zahed, Twiggy

 I due fratelli

 Gli occhi dei bambini medio-orientali, di cui a lungo si è occupata questa rubrica nelle puntate precedenti, sapevano ancora accogliere la tristezza e l'orrore circostante per restituire uno sguardo innocente, capace di sorridere di fronte a un palloncino bianco o di sognare, inseguendo le piste tortuose di pesciolini rossi custoditi nella vasca di casa. Non si può dire altrettanto per i giovani protagonisti delle vicende attuali, non solo cinematografiche: cosa ha percepito lo sguardo di un bambino sopravvissuto alle macerie della scuola di Beslan che non ricorda nemmeno più il suo nome, perché le efferatezze a cui ha assistito hanno oltrepassato la soglia del dolore e allora non esiste memoria del presente o del passato e anche il futuro è scomparso dal suo orizzonte? Questi piccoli sopravvissuti, ridotti a simulacri degli uomini o delle donne che non potranno più essere, morti viventi pur restando in vita, saranno costretti a vegetare o al peggio ad arruolarsi a loro volta, perché un fucile, come un tempo una clava, lo può maneggiare chiunque, anche chi ha la memoria guasta e il cuore fatto saltare dal terrore, unica condizione che fa da denominatore comune alla loro esistenza? Ma quanto dolore può incamerare lo sguardo di un bambino? Esiste ancora una frontiera, che sarebbe lecito non fargli varcare per procrastinare la disperazione di essere stato messo al mondo?

Dietro le sbarre

Nel film Piccoli ladri della regista iraniana Merziyeh Meshkini, presentato in concorso all'ultima Biennale di Venezia, si direbbe che questa linea di demarcazione sia ormai superata, perché nell'inferno delle macerie di Kabul, la capitale afghana presidiata dai carri armati Usa, i due piccoli protagonisti già vivono, per quanto spaventati dall'idea che si possa finire in una condizione analoga anche nell'al di là: «L'inferno è un buco nero senza fondo dove si viene bruciati dagli angeli». Eppure imparano ad attraversarlo con straordinaria dignità, deambulando da un carcere all'altro: il primo detiene il padre, un ex talebano in prigione per motivi politici (poi deportato a Guantanamo), il secondo la madre, considerata 'adultera' e quindi in attesa di condanna a morte per lapidazione. Marchiata dall'intera società come sgualdrina, solo perché dopo cinque anni di assenza del marito, impegnato a difendere la causa di Allah, non sapendo come fare a mantenere se stessa e i figli, la donna ha fatto l'errore di risposarsi, per di più con un uomo che l'ha resa vedova nel giro di poco tempo. Ricomparso il primo marito, sarà proprio lui a condannarla alla detenzione, senza preoccuparsi della sorte dei due ragazzini, costretti a loro volta a diventare 'prigionieri di notte', elemosinando ospitalità presso il carcere dove è segregata la madre.
L'asilo durerà poco, perché la prigione - si sa - non è un albergo e si ha diritto di esservi rinchiusi solo se si è commesso un reato... è sufficiente un furtarello, l'appropriazione indebita di beni altrui, per vedere finalmente aperto quel portone che, mettendo fine alla libertà, viene al contempo a determinare una condizione particolare dell'individuo, colpevole per aver infranto la legge. I due ragazzini iniziano a desiderare di diventare ladri nella speranza di poter riabbracciare la madre, ma le carceri sono infinite, vengono edificate anche in mezzo alle macerie e alla degradazione assoluta, per cui le probabilità di finire nel medesimo si riducono a zero.
Che l'inferno sia davvero un buco nero, i due ragazzi lo sperimentano fin dall'inizio, quando si industriano per salvare da un'orrenda pira un barboncino bianco, inseguito da una banda di coetanei inferociti, armati di fiaccole ardenti, divertiti all'idea di compiere un falò totemico, forse perché il loro immaginario è alimentato soltanto da scene violente, in più identificano nell'animale simboli occidentali, maschere demoniache dietro alle quali può nascondersi Bush, come si può evincere dagli epiteti con cui incalzano la povera bestiola.

Sopravvivere nell'inferno di Kabul

Rimasto intrappolato in una buca, bersagliato da ogni parte da bastoni infuocati, il cagnolino viene tratto in salvo dalla ragazzina, che finisce con l'adottarlo e per entrare in sintonia con lui, a differenza degli adulti che addestrano cani, enormi come mastini, per abituarli a sbranarsi tra loro. Memorabile risulta infatti la sequenza dedicata a documentare una folla di maschi, radunata di fronte al cruento spettacolo di cani che si affrontano a suon di morsi rabbiosi, incoraggiati dalle grida di giubilo di astanti divertiti: il sadismo nei confronti degli animali finisce per essere l'unica risposta possibile, nella capitale liberata, all'occupazione americana.
Tra il barboncino e la ragazzina nasce un'attrazione reciproca: l'uno sente di essere stato salvato e decide di non scappare, l'altra trova in lui un interlocutore a cui poter raccontare le proprie paure, che sono tante... non solo quelle comuni a tutti i bambini quando si sentono soli, indifesi e senza la guida di un adulto, ma anche quelle determinate dal suo essere femmina in una società che rende ancora più difficile la vita a una piccola vagabonda rispetto al fratello. Ma l'occupazione da parte dell'occidente non doveva proprio servire a cambiare questa visione sessista dell'universo?

Alla ricerca di un riparo per la notte

Seppur schiacciata dalla paura, intimorita dall'ansia di trovare un tetto per la notte e un pezzo di pane da scaldare sopra il fumo di carne cotta alla brace (ma solo per ingannare l'olfatto del cane e spronarlo a nutrirsi), la bambina affronta la dura realtà esterna con determinazione: il suo sguardo indomito, spesso severo, non sbaglia un'espressione, non è solo fotogenica, ma capace di recitare con tale realismo, da risultare più vera del vero. Anche il fratello non è da meno: dà il meglio di sé quando reagisce a colpi di sassate al secondino che infanga l'onore della madre; decide persino di mettersi alla prova, ritornando ad affrontarlo per porgergli le sue scuse, ma, travolto dagli stessi sentimenti di sdegno, non potrà esimersi dal raccogliere un'ennesima pietra, per fuggire via, inseguito dalle urla dell'adulto che lo incita a diventare ladro per poter sperare di essere accolto in carcere.
I due fratelli tentano a turno di convincere il padre a perdonare la donna, ma i loro sforzi saranno vani: prima dei colloqui si ripetono reciprocamente le frasi da riferire al genitore, hanno paura di impappinarsi e cercano persino di impararle a memoria. Ancora più disperata risulta invece l'impresa di imparare a derubare, perché ladri non si nasce, ma si diventa: dapprima sottraggono al macellaio la testa di un bue, ma, anziché essere inseguiti e consegnati alle autorità, finiscono per farsela sbranare dai mastini addestrati alla fiera della crudeltà umana; anche lo scippo di una borsa a una donna con bambino, intabarrata in un burka, non avrà conseguenze terribili: un sonoro ceffone e un insolito dono di un tozzo di pane metterà fine al tentativo di improvvisarsi rapinatori maldestri. Solo la visione di un capolavoro di De Sica, Ladri di biciclette, sconsigliato anche dall'addetto alla cassa, che vorrebbe dirottarli a vedere un film americano, insegnerà loro il mestiere: l'arte come maestra del vivere ha finalmente il sopravvento sulla realtà, per quanto l'intero film sia girato secondo gli stilemi del più autentico neorealismo. E allora anche il finale non può essere che un omaggio a un altro film italiano, Roma città aperta, quando il camion porta via il ragazzino che ha appena rubato una bicicletta e la sorella con il cane al guinzaglio si mette a correre, lo insegue, incespica e cade - alla stessa stregua della Magnani mitragliata - avvolta da un nugolo di ciclisti che stanno avanzando. Stavolta il fratello finirà in carcere, ma non in quello della madre, mentre la ragazzina rimasta sola con il barboncino in grembo andrà a bussare per l'ennesima volta al portone della prigione materna, per qualificarsi come «la sorella del ladro di biciclette».

Progettando il furto

Paola Tarino