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25/04/2004
Siamo in carenza di Eresia #2.
Somos todos putas

Tra retorica patriottarda, mercimonio di corpi e prestazioni e abuso di "eroismo".

(Yo puta a confronto con l'uso delle immagini dall'Iraq all'inizio del Festival del Cinema a tematica omosessuale)

Yo, puta
Spezzone 1
Yo puta
Grande Ecole

In questi giorni di follia patriottarda il bisogno di eresia se possibile si moltiplica. Francamente che tre o quattro fascisti vadano a morire per denaro a casa d'altri, mentre altri fascisti si inalberano se qualche "diverso" lavoratore salariato fa il percorso inverso, trovando il proprio guiderdone sul sacro suolo, a noi importa poco: se salvano la ghirba buon per loro, se ci rimettono la buccia sono alcuni nomi esotici che si aggiungono a una lista di milioni di persone autoctone che hanno subito la guerra dei Bush, morendo in una più dignitosa e meno remunerata forma anonima.
Di nuovo però si ripropongono i due mondi: i ricchi da una parte e gli altri dall'altra: questo è spiegato benissimo in migliaia di film da Chaplin in avanti, ma sempre in questi stessi giorni al Festival a tematica omosessuale di Torino è passato un film che rilancia ancora una volta la divisione e lo fa insinuandola dapprima sottilmente a livello visivo e poi negli scambi di dialoghi sempre improntati apparentemente al bon ton dell'ambiente dell'Ecole Normale Superieur, fucina di classe dirigente forgiata sulla creta di rampolli della Francia borghese che conta. Dunque vediamo schierati i pargoli assisi nelle loro poltrone all'inaugurazione, mentre fuori fanno capolino i caschi degli operai, tutti emigrati, tranne i capi. Una riedizione della vetrina del ristorante coi vetri appannati di Chaplin appunto. La sequenza è contrappuntata da una versione solo musicata di El pueblo unido, malinconica e insurgente con juicio (al contrario del Sentenciado sin juicio del bel film di Eliseo Blay: essenziale e militante documentario sui guasti che il franchismo ha fatto sulla società spagnola, arrivando a immaginare la reclusione preventiva per intere categorie potenzialmente pericolose in quanto tali: puttane, omosessuali, malati di mente; da brivido l'appartenente alla brigada 26, nascosto nell'ombra a rimpiangere i bei tempi in cui picchiavano los maricones). Infatti poi la divisione si fa sostanziale al film, esce da tutti i fotogrammi, il regista Robert Salis riesce a inserire sapientemente nel complesso intrico di rapporti, desideri, pulsioni sempre l'elemento di divisione che riconduce al razzismo, all'omofobia per motivi di decoro, allo schiavismo (splendida la testimonianza dello schiavo torturato, proveniente direttamente dal mercantilismo: un monito a futura memoria, per tempi più illuminati).

yo puta
Grande Ecole
Sentenciado sin juicioGrande Ecole
Grande Ecole
Grande Ecole

Ecco il punto: la divisione. Tuttavia il problema non si riduce a superare le regole imposte dal padre imprenditore del protagonista di Grande Ecole, che quando si chiamavano padroni - e non manager o imprenditori - gli aveva inculcato da piccolino in un bel flashback il terrore per l'altro mondo, quello degli operai. E nemmeno è sufficiente concedersi le trasgressioni come le scopate durante i festeggiamenti nella patria Carcassone (quasi un bombardamento quei fuochi d'artificio concomitanti con la penetrazione della splendida Alice Taglioni) o le avventure con un beur altrettanto bello e proletario per cancelalre quella sottile linea, che gli fa riconoscere nel suo cmpagno di corso un prodotto irrecuperabile di quella moda neocon: "Fai parte dell'elite e ne sei fiero; buon per te". Questo è un primo passo, ma non scalfisce la divisione tra i mondi, perché non riguarda solo i ruoli, i desideri, le conoscenze o la cultura: l'emancipazione sociale diventa emancipazione di corpi. Foucaultianamente s'insinua il desiderio che sorge dall'individuazione della manipolazione e fa saltare tutti i paradigmi del sistema: anche il concupito compagno di stanza, oggetto del piacere e della scommessa con la fidanzata ha i mezzi per prendere coscienza di essere un burattino manovrato, "recita una parte che altri hanno deciso", usato dal sistema che va contro i suoi desideri, richiamato all'ordine, subisce il ricatto del perbenismo.
Nella frase precedente si sono usate parole abusate dalla vicenda dei rapiti italiani in Iraq: il viroglettato è stata una frase di un tg che commentava l'ennesimo video pervenuto dai partigiani mesopotamici; "ricatto" sembra che sia il termine più usato per definire la geniale richiesta, volta a far uscire allo scoperto tutti, sapendo in precedenza che sarebbe stata una mossa, un'inquadratura nuova che mette ciascuno di fronte al proprio ruolo, invita ciascuno a "Dare un senso alle cose", come si dice nel film di Salis, che fa concludere ai due amanti usciti fialmente dal perbenismo della loro razza padrona: "Abbiamo inventato il desiderio".

Yo Puta

C'è un dato che si è andato a sommare agli infiniti input che ci colpiscono in questi giorni di festival e di cassette trasmesse da Al Arabiya, e questo ha fatto scattare la sinapsi assistendo al film spagnolo di Luna, Yo puta. Questo interruttore è il lemma "mercenario" visualizzato in tre persone che mangiano a comando recitando un testo concordato, che diventa dirompente, scardinando i ruoli del sistema Italia. "Mercenari": tali si definiscono adulti ben addestrati attirati dai lauti guadagni che in certe zone del mondo si ottengono fornendo servizi da soldato (e di nuovo la radice legata all'Argent, come avrebbe sottolineato con molto più rigore Bresson, fa capolino): vendono le prestazioni dei loro corpi prestanti, addestrati da ore di palestra. E contemporaneamente, "fare mercimonio del proprio corpo" era un'altra espressione volta a indicare il mestiere più antico del mondo: la puttana.
Di nuovo nulla di eretico: da sempre Marte e Venere vanno di pari passo, il problema sorge quando si oltrepassa la soglia della decenza e la tendenza fascista a fabbricare eroi, laddove ci sono solo dei poveri cristi che vendono quello che hanno, produce retorica soffocante. E qui scatta la sensibilità dello spettatore, che sceglie un film spagnolo anche in base al nuovo corso della nazione iberica che per la seconda volta si trova a lanciare un periodo di depurazione dai danni del franchismo. E il film non fa che confermare il parallelismo.

Yo, puta riesce nell'intento che era anche di De Andrè, di farci sentire un po' puttane tutti: non è così strano accettare denaro per prestazioni, come la stessa ricercatrice dell'inchiesta a cui viene proposto uno scambio vantaggioso nella parte di fiction del film, e alla fine conoscerà l'oggetto della sua ricerca dal di dentro per pagarsi studi e alloggio: in un colpo di teatro finale che le fa sperimentare sulla propria persona i ricatti e le scelte, i bisogni e la pratica a cui spingono, le mani sporche e il reclinamento su se stessi dopo la prova del fuoco: lo sverginamento per denaro, la prima volta.
Allo stesso modo ci scopriamo "puttane" tutti: qualsiasi atteggiamento scegliamo, che cerchiamo di scioglierci dall'abbraccio con le brigate verdi, che chiedono quello che abbiamo preteso da più di un anno; o che ci smarchiamo, lasciando che i fasci si arrangino tra loro per salvare i loro camerati, ci sentiamo comunque manipolati, privati del nostro desiderio da questo cambio di inquadratura che non possiamo non riconoscere come geniale: la virginea purezza di manifestare per la pace sarà per sempre sporcata da quella manifestazione a comando, se non ci sottrarremo dall'abbraccio mortifero con i guerrafondai sottolineando "contro lo stato e contro le brigate verdi". Nel dibattito interno a indymedia ho raccolto una frase estrapolata dalla lista, che trova le espressioni giuste per spiegare questa frustrazione: "Mi urta profondamente che passi il fatto che una manif di questo genere abbia piu' dignità di ogni altra demo per la pace solo perché ha il supporto dei media mainstream. Perché nel teatrino che han tirato su negli ultimi tempi si finirebbe ad interpretare, da bravi, il ruolo che altri hanno scelto per noi e permettendo ai media_mainstream/governo/islamisti_dei_miei_collioni di strumentalizzare le persone in piazza. Io me ne frego dei loro fottuti appuntamenti, così come del teatrino mediatico che brigateverdi, governo e famigliari più o meno consensualmente hanno tirato su".
Proprio questo è il punto, sottraendoci libero arbitrio ci hanno ridotti se non come le puttane di Yo, puta o i mercenari mostrati da Al Arabiya almeno come i clienti e i prosseneti che gravitano attorno al film-inchiesta spagnolo, eliminando ogni nostra autorialità, delegata ai nuovi registi, i brigatisti da un lato e quei registi che si limitano a registrare la realtà dei film porno dall'altro. Le nuove autorialità forti che si affiancano al potere, quello dei media mainstrem che sono in grado di annunciare il rapimento di quattro gorilla italiani due giorni prima che avvenga, adottano nomi che in Italia rievocano gli anni di piombo e spingono verso governi di unità nazional(ista). Cui prodest il revanchismo sciovinista?

I media - paradossalmente proprio dai pennivendoli viene questo concetto in questi giorni al tempo del colera - hanno azzardato l'insinuazione che in fondo (anche se ben inteso "loro, i nostri ragazzi", non sono mercenari) siamo un po' tutti mercenari (usando gli stessi meccanismi che il film adotta per renderci familiari le puttane), per insinuare che tutti noi ci facciamo pagare le prestazioni di lavoro, riscoprendosi tutti potenzialmente comunisti almeno nell'aspirazione per un mondo senza capitale in cui ciascuno riceva ciò di cui ha bisogno dalla comunità a cui collabora (l'importante è che ciò non avvenga a Melfi, fabbrica grimaldello da una dozzina d'anni moloch che fagocita vite per calmierare il costo del lavoro e ridurlo a schiavismo, come in Grande Ecole); ebbene, questi giornalisti hanno cercato di rendere quelle figure tristi e un po' stereotipate nella loro marzialità, più umane: siamo tutti mercenari... e siamo un po' tutti puttane. Consoliamoci.

Yo, puta propone per lo più interviste frontali senza filtri - e qui cominciano i distinguo - come i media sfuggono invece all'espressione franca, le riprese sono saltellanti in situazione bellica, i parenti impegnati a sorreggere vessilli stantii, i rapiti si vedono in un breve spezzone che si carica di significati volta per volta, in seguito agli eventi che riguardano i quattro invasori catturati, ma è congelato in un passato carbonaro; invece le donne e gli gigolo del film sono sfaccettati e toccano tutti gli aspetti della loro esistenza, condizionata dalla loro scelta professionale almeno quanto gli altri disgraziati inginocchiati ai piedi degli invasati con i kalashnikov esasperati da decenni di guerre ai loro danni; i contributi dei testimoni del film spagnolo sono raggruppati dall'ottimo montaggio per aree tematiche e da scritte che si compongono a video seguendo un criterio di enunciazione di dati elettronico, forse un po' troppo insistito per apparire più giornalistico, mentre al contrario le immagini dei telegiornali fanno il lavoro opposto non avendo nulla da comunicare: sembra che gli autori del film rincorrano più del dovuto il bisogno di mostrare come normale la vita della puttana (e questa aspirazione di normalità è più volte ribadita dagli intervistati), almeno quanto i notiziari al contrario si sforzino di dimostrare che si sta vivendo un evento eccezionale laddove non esiste alcuna notizia degna di nota, al punto che lo si spara nei titoli senza pudore: "Nessuna novità".
Questo forse avviene perché quelle mostrate dalle puttane sono "tendenze umane e non di un altro mondo" vissute da persone ritenute paria (lo si ribadisce proprio toccando tangenzialmente il sado-maso, ovvero il campo dove sarebbero più attinenti le immagini dal fronte di guerra; ma i Petit soldat della lega le hanno abbondantemente superate in fantasia, quando fanno passare emendamenti che depenalizzano le torture, almeno la prima volta che si applicano elettrodi a qualcuno, o s'impongono i manganelli ai sovversivi: fantanazismo) come paria è il beur di Grande Ecole escluso dal gioco di desiderio se non come oggetto, e quelle dei mercenari sono invece vicende di persone apparentemente normali, che operano nel campo della violenza straordinaria e non regolata da leggi umane.

E la vita continua

In questo senso è importante nel finale del film, quando l'autrice, Luna responsabile anche del libro da cui è desunto Yo, puta abbandona in parte la materia che le ha dato tanti spunti di riflessione, il materiale umano, per cambiare sguardo e prima di far coinvolgere nel lenocinio anche la bella ricercatrice come preteso da una qualsiasi fiction di un film porno, si volge ai colleghi del settore: vengono intervistati alcuni registi, che rivelano l'assunto del film: "bisogna riprendere tutto [senza stacchi e senza montaggio: il contrario di quello che ha fatto finora il film stesso, adottando il vertiginoso 'taglia e cuci' con effetti evidenti per evitare la noia del reportage canonico. E ci riesce], perché tutto deve essere come nella realtà", per far presa sul pubblico voyeur. Dunque la differenza è che le puttane sono solo più sincere e trasparenti, i mercenari vivono invece un mondo di sotterfugi, mai troppo chiari (come il motivo che ha spinto lì quei quattro disgraziati e perché la notizia sia stata data dalla Reuter due giorni prima che avvenisse davvero), montato e manipolato mediaticamente, fino all'estremo sberleffo della indizione di una manifestazione pacifista a suffragio di fascisti, ma contro il loro governo occupante. Esilarante, se non fosse una delle più belle tragedie inscenate sullo Shatt el Arab proprio fuori a Cinecittà, in piazza san Pietro, tutti a officiare il rito ipocrita del ventre molle italiano che ha voluto la guerra e ora è costretto ad avversarla.

In entrambi i casi, meretrici e mercenari, si è alla ricerca di qualcosa. Il film inizia ogni sezione con un cartello: "looking for..." che prosegue invariabilmente con la stessa ripresa di interni su piatti sporchi, segreteria telefonica della antropologa che introduce il secondo invariabile cartello: "l'appuntamento per l'intervista..." da lì si apre la scena (nel vero senso della parola, attraverso un ripetuto gioco formale di deformazione del nuovo ambiente, che entra a far parte di un mondo del tutto diverso, fatto di sensualità urlata, forse un po' volgare, ma almeno con tanto maquillage a rendere gradevole l'ambientazione) su un recondito aspetto della prostituzione, raccontata dal protagonista (o da un attore, ma non ha molta importanza, dato il livello di verosimiglianza).
La ricerca dei mercenari si limita invece a una via d'uscita onorevole, che nel più primordiale passa attraverso una frase da sussidiario emendato dal Miur (la spacconata risorgimentale, il bullismo d'accatto; d'annunziano senza la furbizia di non rimetterci la pelle: pillole della più vieta cultura fascista: tirrem innanz) e questa viene narrata senza la patina che le immagini curate di Aronovich, direttore di fotografia per Luna, ci offrono, inacidendo i cromatismi sullo slavo ("levantino" avrebbe probabilmente detto Quatrocchi se avesse saputo qualcosa della sua cultura di riferimento, il linguaggio littorio) che si presenta crudamente: "Sono un trafficante di donne senza scrupoli".

Certo è più facile mostrare questa sincerità una volta limitato il terreno, inquadrandolo nell'ambito del reportage, ma mediato da una componente di fiction che godardianamente non esplicita mai fino a dove si spinge nei territori della realtà e fino a che punto li ricostruisce: in queste Due o tre cose che sappiamo di loro sicuramente Daryl Hanna è un'attrice, probabilmente anche la ragazza che finge (fino a che punto non ripercorre le tracce della regista vera non si sa e probabilmente nemmeno lo step precedente letterario lo rivela) la ricerca è prezzolata [eh, eh: chi non lo è, sembra di vedere la faccia da talk show di Ignazio La Russa, arruolato in entrambe le parti, fare capolino], forse molto meno fuori copione sono i testimoni. In questo ambito è facile apparire sinceri, sicuramente è un compito più semplice di quando si deve legittimare l'assassinio di donne e bambini, o il genocidio di un popolo con la scusa dell'intervento di "pace"... e questo per vil denaro.


Spezzone 2

Le pose dei craniopelati amici dei palestrati sono assimilabili per sicumera all'atteggiarsi compiaciuto dei clienti e dei lennoni o maitresse, imprestate da Larry Flint o penthouse... che puntellano la narrazione tornando più volte come tutti i testimoni, inseriti in ambienti impossibili, sicuramente più improbabili di quelli, orridi ma così iperreali (mentre quelli del film sono iperrealisti e lisergici, imbevuti di sensazioni tattili e corporee, quelli dei tg arrivano già colmi di putrefazione, benché emendati: sono iperreali e "ottusi" dalla schizofrenia di far apparire normale ciò che non può esserlo e mostrare la catastrofe della guerra con quello che c'è: magari cadaveri bruciati trascinati via in spregio alla loro nazionalità di invasori, oppure corpi martirizzati dal fuoco amico, senza che si possano vedere, ma di cui si percepisce la presenza, occultati perché non opportuni per i migliori amici dell'America) che ci arrivano dall'Iraq. Il metodo scelto ci rende familiari i singoli intervistati - inseriti elegantemente in una carrellata di primi piani iniziale, ripetuta alla fine con variazioni, ma sempre con lo stesso espediente tecnologico di attribuire un'unica identità al corpo che assume fattezze diverse e nazionalità le più disparate volta per volta. Invece la componente mercenaria mostra la differenziazione data dalla divisa, l'uniforme di cui parla Anghelopulos, summa a cui arriverà questo excursus sul filo rosso dell'eresia, che stiamo conducendo lentamente a causa del ritmo imposto al nostro mercimonio dal fatto che il mondo del lavoro è cambiato, ha accelerato, e negli ultimi anni possiamo dedicare meno tempo a cinemah a causa dell'invadenza del bisogno di mantenersi che occupa più spazio nella giornata. Abbiamo deciso di affrontare questa serie di editoriali essendoci posti, ormai più volte, di fronte ai problemi che crea il lavoro - qualunque impiego: dalla puttana al mercenario, dal capo del personale al crumiro capo-ute, dall'eroico (eh, i parametri che mutano!) tranviere che autonomizza la sua lotta al precario che troveremo al mayday - tantissime volte ci siamo scontrati con il dilemma che attanaglia la ragazza alter ego dell'autrice: "Non hai niente da perdere", e facendo eco alla sua risposta davanti all'assenza di eresia in risposta a manifestazioni teleguidate, ci siamo risposti: "noi stessi".
Somos todos putas

Vivre sa vie: "La incontrò casualmente in una mescita di gin in Rush Street, ritta contro il bancone mentre lui stava per ordinare il secondo. Non era una bellezza, ma il prezzo che sparò era talmente modico che Hector accettò le condizioni. Prima di giorno sarebbe stato morto in tutti i casi, e cosa poteva esserci di più appropriato che passare le ultime ore terrene in compagnia di una puttana?
Lei lo condusse al White House Hotel, lì davanti, e una volta fatto quello per cui erano saliti nella stanza, gli chiese se gli andava un altro colpo. Hector rispose che non aveva i soldi per la replica: ma quando lei gli assicurò che non avrebbe chiesto supplementi, fece spallucce, disse perché no, e si diede a montarla per la seconda volta. Il bis culminò in breve con un'altra eiaculazione, e Sylvia Meers sorrise. Si congratulò con lui per la performance, poi gli chiese se aveva la forza di rifarlo. Non subito, rispose Hector; ma se gli lasciava mezz'ora, probabilmente non avrebbe avuto difficoltà. Non sei abbastanza in gamba, fece lei. Se ci fosse riuscito in venti minuti, gli avrebbe fatto un altro regalino; però doveva tornargli duro in dieci. Sylvia guardò l'orologio sul comodino. dieci minuti da ora, dichiarò, si parte quando la lancetta lunga supera le dodici. Questo era l'accordo. Dieci minuti per rizzarsi di nuovo, e altri dieci per completare l'opera. Se però gli si fosse ammosciato in qualsiasi momento prima della conclusione, avrebbe dovuto ripagarle anche la volta precedente. Questa era la penitenza. Tre al prezzo di una, o scucire il rimborso totale. Come sarebbe andata? Voleva arrendersi all'istante o pensava di farcela anche stando sotto pressione?
Se mentre formulava la domanda non avesse continuato a sorridere, Hector l'avrebbe giudicata pazza. Le puttane non offrono servizi gratis, non sfidano i clienti a prove di virilità. Queste sono cose da specialiste dello scudiscio o da odontoiatrici clandestine dei maschi, mercanti di dolore fisico e bizzarre umiliazioni; ma a lui la Meers sembrava una ragzza trasandata, superficiale, tesa non tanto a schernirlo quanto ad adescarlo in un gioco. O no - non tanto un gioco, piuttosto un esperimento, un'indagine scientifica sulla tenacia copulatoria del suo attributo già svuotato due volte. Sembrava gli stesse domandando: i morti possono resuscitare? e se sì, quante volte? Non erano ammesse le ipotesi astratte. Per giungere a una conclusione, l'indagine doveva essere rigorosamente sperimentale".

(Paul Auster, Il libro delle illusioni, Einaudi, Torino 2003, pp. 149-50).

E sperimentale risulta alla fine l'indagine di Yo Puta, ma anche la scommessa di Grande ecole


Spezzone 3
Grande Ecole

Intanto a Torino (e dove se no: la citta laboratorio, nonostante i sogni olimpici) era iniziato il XIX Festival dedicato a tematiche omosessuali di Minerba e dei suoi collaboratori, persone avulse da qualsiasi conventicola, che preparano con passione questa settimana senza darsi arie di eroi e limitando allo stretto indispensabile l'attività di marchette per poter proporre i film che vogliono proiettare. Da 19 anni in qua. E da 19 anni 19 fascistelli non ancora andati a cercare fortuna in Iraq portano a spasso tricolori e drappi per testimoniare la loro chiusura mentale, dimostrare la loro matrice intollerante; la loro omofobia impotente: guardarli in volto per scrutare un barlume di lucidità è un'impresa disperata. Ma quello che colpisce è il loro smarrimento: non sanno nemmeno bene loro perché sono lì, in silenzio con cartelli deliranti. Forse basterebbe poco..., che accettassero l'invito a entrare e vedere un film (magari della retrospettiva araba, ih, ih: quegli stessi arabi che si vogliono umiliare e che soldatini repressi non fanno altro che violentare, usando malamente le loro turbe sessuali e la loro latente sodomia, vissuta - da loro s“ - come malattia a causa della repressione della educazione retriva subita) per capire che non ci sono alieni lì dentro e che nessuno attenterebbe all'integrità del loro corpo, se loro non vogliono. Forse potrebbero anche apprezzare il film, ma il tricolore offusca le menti e rimangono fuori in un angolino. Tristi mercenari di squallidi politici.
Potente è stato invece il film d'apertura, Party Monster (Fenton Bailey e Randy Barbato, 2003), una sorta di proseguimento di Boogie Nights trapiantato nel decennio successivo, estremizzando qualunque rifiuto e improntato al totale infantile bisogno di costruirsi un mondo in cui rifugiarsi con gli amici. E, come è assodato dalla prassi, dove tradire e uccidere gli amici. In questo caso le parole d'ordine sono "Money success fame glamour", come vengono scandite in una canzoncina di parafrasi scanzonata dell'operetta di gusto punk.

Le Soleil assassiné I ruoli saltano, le maschere diventano grottesche, più nessuno può manipolare alcunché, o forse tutti lo fanno e così nessuno risulta passivo, mero figurante di un gioco fatto di mercenari e generali, di puttane e maitresse, di borghesi più o meno insofferenti del potere che li ha allevati e imbianchini beur seducenti, quanto la mente sottile e camusienne di un pied noir come Jean Sénac ritratto in Le soleil assassiné (Abdelkrim Bahloul, 2003), ritratto con la sua Algeria, puttana che ha infranto i sogni di liberazione e socialismo, ma incapace di piegarlo nella sua ricerca di poesia e nella sua capacità di occupare tutti gli anfratti lasciati liberi fino al suo assassinio, precursore della figura di Pasolini e accompagnato in questo film devoto da un Ninetto Davoli maghrebino testimone delle sue intransigenti difese del teatro e della letteratura espressioni dell'Algeria liberata dai petit soldat mercenari e dalla legione straniera giusto quarant'anni fa.

Tutto in Party Monster è improntato all'immediata spettacolarizzazione in quegli anni che rappresentano la fine. Il canto del cigno drogato, di quella libertà di espressione e di provocazione estrema, esagerata - la stessa messa in scena da Dreamers di Bertolucci e i tropi di quel lavoro sul corpo appena liberato dal Sessantotto si ritrovano qui nella decadenza post-punk del Club Kids di Michael Alig: gli specchi, entrambi i ragazzini nella vasca, la tenda di sesso e droga e il denaro... e Peter Pan -, prima che la preponderanza del perbenismo borghese imponesse di nuovo eroi, lustrini, militari, "dio patria famiglia" e altre stupidaggini dello stesso tipo... Meglio, molto meglio il ragazzino che si fa mantenere dal tenutario con una benda su un occhio di un locale dove si vive in un costante party e delle petulanti richieste mirate a esorcizzare una realtà che li terrorizza e che infatti si presenterà attraverso il punto di vista del topo, il quale sciorina l'intera storia dell'omicidio che fin dall'inizio nessuno vuole ammettere, perché tutti si sentono di far parte di uno stesso baccello (richiamo esplicito a una battuta di Stanlio e Ollio: anche loro creavano un mondo avulso dal reale e poi lo distruggevano divertendosi), fino al romanzo che chiude ad anello il film pizzicando la stessa carica lisergica di Yo puta in mezzo alla presentazione di Disco Bloodbath di James St.James. Di tutte le biografie su personaggi glamour o musicisti alla Velvet Goldmine questa è tra le più convincenti per come si sfaccettano i personaggi, per come si riprendono gli ambienti (geniale la soggettiva del topo che usa le medesime scariche elettroniche adottate da Luna nel film spagnolo per mostrare il trascinamento della cassetta al momento dell'omicidio dell'angelo nero pusher), per come si mostra il modo in cui si scivola dal queer allo scrittore di bestseller che vamirizzano gli amici, da vero mercenario.


Spezzone 4

La rivelazione del topo