Fine della Repubblica

1. Finzione di evento.
Parziale memoria spacciata come collettiva Buongiorno, notte di Marco Bellocchio

La fine della repubblica, dice Giampaolo Pansa, cercando di pubblicizzare il suo libro, a proposito di questo episodio... e forse in questo ha ragione, perché se la repubblica voluta dalla resistenza era fondata sulle opinioni di classe, il rapimento Moro ha marcato lo sfaldamento di un modo granitico e monolitico di interpretare gli eventi da parte della classe operaia, che non seguì in blocco le indicazioni delle organizzazioni della sinistra; certo che il paese reale - nessuno vuole ricordarlo dopo che si è penato tanto per nasconderlo - concordava in larga maggioranza con lo slogan che nel film compare brevemente, seminascosto, su un muro e che era la vera risposta al terrorismo, una risposta che non lo condannava se non per una visione arcaica del paese e della lotta di classe. Ma il regista riesce a dire una frase tanto grave nela sua immodestia e nel suo egocentrismo di borghese viziato quanto inutile e banale: "la verità è quella che io sento e quello volevo raccontare rivendicando la libertà dell'artista".

Non è un caso che si parli più spesso del rapimento Moro, e meno della sua esecuzione, perché ormai, nel momento in cui, rapito, ha accettato il rapporto con i rapitori - forse uno dei pochi suoi gesti di lucida politica - e ha scritto quelle lettere e ha rivelato il regime, in quel momento si è trasfigurato il personaggio e a pochi poteva interessare il suo destino: quello si era concluso lì, comunque. Lasciarlo ancora vegetare sarebbe stato sottrarlo al martirio, politicamente avrebbe rappresentato sottrarre al regime gli ultimi argomenti per protrarre l'agonia, ma sarebbe stato venire meno alla propria figura di epigoni di quelle guardie rosse che nel 1920, uccidendo Sonzini e Scimula, diedero il destro alla stampa borghese di criminalizzare il movimento operaio.

Ecco, Bellocchio da un lato non si accorge, non ricorda con precisione, corre dietro alla versione ufficiale delle reazioni dei cittadini, considerandoli già allora sudditi e proni a sussumere le opinioni e gli atteggiamenti preconfezionati; non solo fa un'icona di quel prigioniero, senza riuscire a confezionargli attorno quella trasfigurazione che vorrebbe (l'equiparazione con i condannati a morte dal tribunale fascista nella lettura delle lettere è una delle operazioni più squallidamente ignobili della storia del cinema italiano), perché la dignità dei morti della resistenza non la si può conferire a chi ha occupato il potere per decenni - si tratta di figure, comunque, diverse! - ma arriva a descrivere una società catatonica, davvero imbambolata come vorrebbero le cronache a posteriori, mentre era vitale e si sottraeva all'abbraccio mortale nel quale per un verso le br e per l'altro lo stato avrebbero voluto soffocarla. E invece non echeggia "Né con lo stato, né con le br" nel film di Bellocchio, che dall'altro lato non si accorge quanto il suo modo di voler descrivere il personaggio sia frutto delle medesime categorie vetuste che mette in scena la sua protagonista con le sue visioni oniriche in bianco e nero reailsta sovietico. Infatti in una trasmissione radiofonica (radiotre, ore 14,30 del 19 ottobre 2003: I luoghi della vita che lo ha intervistato per un'ora e mezza) il regista definisce la sua pellicola non "controfattuale", come potrebbe sembrare per la manipolazione dell'esito finale in una delle due soluzioni proposte, ma solo l'immagine di un uomo, no un fantasma (per carità!), ma semplice trasposizione di un'idea di libertà possibile oggi attraverso la passeggiata sotto la pioggia (tanto simile a quei Pugni in tasca, aggiungiamo noi, da provocare l'altra domanda del conduttore sull'ossessione del padre che traspare anche qui nel borghesissimo Bellocchio, rampollo di un famiglia che gli ha permesso di collezionare nemmeno un'ora di lavoro in tutta la sua vita (e sia detto con invidia e non moralisticamente): infatti secondo lui la liberazione di Moro nel finale del film è il ribaltamento della sua prima opera di 40 anni prima. dove uccidere la madre non è liberarsi di lei (e della borghesia che rappresenta), ma cominciare a convivere con il suo fantasma (per poi sostituirvisi, aggiungeremmo di nuovo - criticamente - noi). Proprio nel liberare il padre si riconquisterebbe la propria libertà
Noi eravamo altrove. E continuiamo a esserlo anche durante la visione del film, anche quando l'abisso di insipienza coinvolge la sceneggiatura e s'inventa il canovaccio scritto dal bibliotecario, espediente ridicolo per inserire un banale metalinguaggio e rendere letteraria in fieri quella che in effetti sarebbe stata in un paese normale a malapena una operetta.

Per me allora come adesso: "si muore di eroina, si muore sul lavoro, cazzo ci frega di Aldo Moro" è l'unico modo di risolvere la presenza di un cadavere, ingombrante solo per i suoi amici o i suoi finti avversari, contestualizzandolo con i molti altri del periodo e la scritta sul muro è anche cinematograficamente forse l'unica scelta di taglio dell'inquadratura che tenta di uscire dal presunto kammerspiel, autonominato claustrofobico e invece solo di format televisivo dell'intero film; Non tanto politicamente mi attendevo certo guizzi, quanto piuttosto mi aspettavo si uscisse dai clichè, si abbandonassero finalmente le macchiette, quale risulta anche questa volta Moretti che deve parlare come un volantino (e diciamolo una volta per tutte che erano "farneticanti" almeno quanto le "convergenze parallele" della 'povera vittima' corresponsabile di un regime retrogrado che ha soffocato il paese per 50 anni) in una calzamaglia alla Diabolik. Anche per questo Bellocchio ha una risposta che fa rimpiangere di non aver indossato la tuta antivaccate (mentre facevo le pulizie mi era di impedimento e ho dovuto levarla: io non ho la domestica su cui dal 1939 invece Bellocchio può contare): "Lo stile visionario adottato impone una sintesi linguistica, perciò risaltano poco le applicazioni teoretiche". Insomma, dato che aveva le visioni, ha pensato bene di eliminare tutto quello che poteva dare un senso al suo kammerspiel: è rimasta la solita claustrofobia che percorre tutto il suo fare un surrogato di cinema. E allora qual è la nuova banalità con cui cerca di legittimare la reclusione della mdp in quelle quattro mura? Semplice: "Volevo evidenziare la disciplina militare a cui rimangono fedeli i due brigatisti, nonostante abbiano difficoltà a sopportare questa condizione" e quindi reclude tutto, anche i sogni (Çfondamentale è la battuta "Ho smesso di sognare", ci rivela il registaÈ), per dimostrare questa ascesi religiosa che prenderebbe i brigatisti, dopodiché si aprono le chiuse che avevano contenuto il senso del ridicolo e Bellocchio ci rivela: "Il film è impregnato di argomento religioso, perché quando l'ideologia diventa fanatismo si trasforma in fondamentalismo e anche questo procedere verso il destino di una morte ormai decisa va in questa direzione" e poi la perla: "Il cattolicesimo mantiene un rapporto cno il corpo; Herlitzka/Moro perciò è più umano di LoCascio/Moretti".

Si vagheggiava di questa figura femminile, preminente e centrale nel racconto: mi dicevo che forse si poteva sperare di trovare un approccio che facesse giustizia del movimento più importante di quel decennio, il femminismo. Invece questa si rifugia in banali quanto scontate nicchie oniriche condizionate dal realismo socialista in bianco e nero, incapace di esser protagonista e con la macchina da presa che si sforza di acquisirne lo sguardo, facendo solo accademia di infinite altre inquadrature dello stesso tipo televisivo, quando si insiste a voler far recepire come proprio allo spettatore il punto di vista di un astante poco attivo. Non sufficientemente approfondita è anche la figura dell'obiettore, finisce con l'essere marginalizzata, quando evidentemente in fase di sceneggiatura doveva rappresentare la presa di posizione della parte migliore del Movimento.


Ma il peggio è la fissazione psicanalitica che condiziona ogni opera di Bellocchio fin dagli esordi,che è divenuta un'ossessione ogni volta più manierista di se stesso; poteva ottenere un Kurtz imprigionato non in una grotta atavica, ma fatta di orrori democristiani e tira fuori un Silvio Pellico che rimesta la solita lettera alla moglie, glissando su quelle di condanna dell'apparato che lo ha condannato al ruolo di martire.

Non parliamo poi della ignobile sequenza di "Urla il vento...": se non avessero tutti più di 80 anni i partigiani avrebbero finalmente imbracciato i loro moschetti per fare giustizia di Bellocchio. ma come si può mettere in scena un aborto simile. Volendo strappare commozione e pugni chiusi (retorici e inutili già negli anni settanta), ha montato un po' di immagini stile video amatoriale dove i protagonisti risultano essere nostalgici zombie, avulsi dalla realtà: la stragrande maggioranza dei partigiani allora erano amareggiati ma non stupidi, era la retorica democristiana a soffocare volutamente il ricordo della resistenza antifascista, mentre qui si direbbe che voglia dimostrare come non ci fossero addentellati tra i due fenomeni (Br/Cln) perché i più vecchi erano imprigionati in un'epoca passata di cui rimanevano solo i canti (dovrebbe rivedersi i film di Gobetti o anche quello di Gaglianone).
La sequenza finale, la più insulsa, perché non riesce a coniugare una realtà possibile con i sogni ejzenstejniani della terrorista; girata male, con automobili non ancora progettate nel 1978, con cartelli stradali di là da venire, le sfocature da teleobiettivo tirato sul soggetto che sembrano uno spot. E' la sequenza ad essere priva di senso, raffazzonata, come se non sapesse come finire il film, e forse non si è accorto di non averlo nemmeno iniziato, perché ha solo raccolto serie di sequenze slegate che non servono a nulla: non sono una ricostruzione analitica capace di aprire dibattiti (come l'originale film di Benvenuti) e nemmeno una fiction godibile.
Quello che lascia estereffatti è che pretendesse pure ilpremio e che insista nel denunciare "certa sinistra che vuole usare un film solo per analisi politiche": ma allora, ci può spiegare - di grazia - perché sceglie di ambientare il suo film durante il rapimento Moro proprio in quell'alloggio e perché si mette a fare rapporti immaginari con la resistenza? Casualità? o non piuttosto chiara scelta politica, da non discutere, perché è la sua verità di artista?