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5/9/2003
Patrice Chéreau - Son Frère
Sovraesposizione occultatrice

Patrice Chéreau

Son Frère








Regia:  Patrice Chereau
Sceneggiatura:  Patrice Chéreau, Anne-Louise Trividic, dal romanzo di Philippe Besson
Fotografia:  Eric Gautier
Montaqgio:  François Gedigier
Suono:  Guillaume Sciama
Costumi:  Caroline de Vivaise

CAST

Starring: Bruno Todeschini, Eric Caravaca, Maurice Garrel, Antoinette Moya, Fred Ulysse, Nathalie Boutefeu, Sylvain Jacques, Catherine Ferran, Robinson Stevenin

Produzione: Azor Films
Durata: 95'
Anno: 2003
Nazione: Francia

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Sovraesposizione occultatrice

La sintesi del film pare nascondersi nella sovraesposizione: fin dalla prima rivelatrice sequenza che contiene già la prolessi dell'epilogo la luce adottata è quella di un eccesso di luminosità che, evidenziando corpi-oggetti non più desideranti, li deforma, quasi che, mostrandoli come sono e privandoli del futuro (già narrato verbalmente dalle parole del vecchio: «I corpi dei naufraghi si trovano sempre nello stesso posto»), ce li mostri sotto un diverso aspetto. Una nuova luce, che per effetto "ob-scene" finisce con il nascondere anziché evidenziare proprio nel momento che pone sotto i riflettori e giunge a spogliare il corpo maschile, denudandolo in diretta anche dei peli.


Nella penombra s'indovina

Alle situazioni più oscure è consegnata la possibilità di indovinare. Ma cosa ci sarebbe da scoprire se, come si dice in quella inquadratura iniziale: «L'interessante non è la scoperta della verità, ma tutto il "resto"»? Quello che emerge dalla penombra è la paura; quella primordiale, invincibile, a cui non ci si può sottrarre, che non si riesce a illuminare. Infatti la malattia viene annunciata a casa di Luc, in inverno, di sera («Ho paura, anzi: mi sto cagando sotto»), ma non è tanto il terrore per quella strana infermità, quanto lo stupore per il fatto che «a un tratto si spezza qualcosa»


Proprio in quelle deposizioni che molti hanno rilevato come citazioni da Mantegna si palesa maggiormente il gioco di sottrazione, perché se nel Cristo morto si evidenzia la cadavericità come pezzo di carne pietrificata dal rigor mortis e si manifesta l'inerzia della mancanza di vita proprio in quelle pieghe rese più profonde dalla scelta del colore - e quindi da una luce più spietata -, nel film invece la luminescenza del corpo sembra voler eliminare spessore; esangue non è solo il corpo ma anche e soprattutto ciò che è la persona, resa profondamente diversa dalla malattia che la trasforma internamente, irradia intorno a sé la propria essenza, cercando disperatamente una dimensione per riproporsi diversa da quanto era in precedenza, per riuscire a "incarnare" un nuovo ruolo, che permetta di sottrarsi alla paura, uscire dall'ombra, ricevere di nuovo una luce che si rifletta in modo "sano" sulla epidermide. Inane sforzo destinato al fallimento.


Già nel Mestiere delle armi abbiamo assistito a una ricerca dello stesso tipo sul corpo che contiene già in sé i prodromi evidenti della morte; e anche in quel caso il delirio si trasmetteva allo spettatore attraverso la soggettiva, mentre in questo caso è il fratello a sostituirsi a Thomas e a fare da mediatore del panico che attanaglia, fino a esagerare con la sequenza allucinata un po' forzata dove trova spazio anche la voce altrettanto onirica di Marianne Faithfull. Solo che Olmi utilizzava la cancrena come metafora della fine di un'epoca, mentre Chéreau usa l'anemia come presa di coscienza della propria vacuità e della pochezza della esistenza di Thomas, che non a caso è tratteggiato in modo scostante, sgradevole... anche un po' stronzo, perché un malato non è quasi mai una compagnia allettante e il grosso pregio del film a livello di immediata comprensione è proprio nel voler rimarcare questa quantità di scostante repellenza che la malattia porta con sé senza tentare di edulcorarla, innanzitutto proprio nell'ambito del rapporto con i "non malati", cercando di erigere quella barriera che si frappone tra i due mondi, quello di chi viene macellato e quello di chi non può rendersi conto di cosa si prova a essere condannato a rimanere dall'altra parte della barriera, visibile solo a chi l'ha oltrepassata e si trova in balia degli esperimenti a tentoni di medici per i quali risulta routine quello che si configura ogni giorno maggiormente come dramma per i malati. Come il diciannovenne che Luc incrocia nel corridoio e che getta la maschera, rivelando il terrore prima ancora del dolore: l'orrore di scoprirsi diverso, reso differente dall'interno, dall'insorgere della malattia.
Questo è un aspetto che forse si comprende meglio mettendo in relazione il film di Chereau con le intuizioni di Verhoeven nel suo remake dell'Hollow Man, dove si ritrova, ribaltata, la dicotomia tra corpo interno, amichevole, e mondo circostante, pieno di pericoli, che invece in Chéreau diventa paradiso perduto, mentre è quella componente interna, "invisibile", incomprensibile, a rivelarsi nemica. Ecco appunto: la paura che scaturisce dall'incomprensione; quello che accomuna i due film così distanti è il fatto che permane l'essenza invisibile di quella corporeità inseguita nelle sue manifestazioni patogene.
Il dentro che fuoriesce di cui parlavamo due anni fa in un memorabile editoriale dedicato ai corpi si fa, in questo film, panico, perché è un dentro non solo incontrollabile, ma micidiale, debilitante, incontrovertibile che si insinua nella qualità della vita al punto che sposta il terreno della lotta contro la morte dal piano della sua procrastinazione a qualunque costo su quello della sopportabilità della sopravvivenza, urlata a tutto schermo dal ragazzo, che deambula con l'ipodermoclisi - orpello ormai imprescindibile per lui e altrettanto deformante la sua figura congestionata - e rivendica la propria dignità: «Non ho voglia di farmi macellare».


E allora il tempo limitato entro confini precisi diventa il campo in cui si consuma la presa di coscienza: il tempo che scorre sulla panchina occupata dal padre di Garrel di fronte al mare estivo, quasi a voler tirare le somme, un modo per indirizzare verso la consapevolezza del destino, si alterna all'altra stagione, quella invernale in cui s'inizia ad avere la percezione di cosa significa la malattia, l'uscita dalla normalità; le due stagioni si alternano, ma hanno un solo andamento, un'unica possibile conclusione. Forse proprio per affrontare la normalità della malattia Thomas, dimostrando la sua omofobia latente molto più che negli accenni verbali all'omosessualità del fratello, cerca l'aiuto di chi lui giudica "diverso", quel fratello estraneo con il quale finisce con l'intessere una complicità attraverso la quale riuscire a calarsi nel nuovo ruolo, consentendogli finalmente di affrontare quel "bagno" procrastinato a un primo invito, perché da consumarsi in solitudine, ma con la coscienza di essere compresi dal fratello. E c'è in quella emblematica sequenza finale, dove Luc lascia scorrere l'intera giornata prima di dare l'allarme («perché ci ha avvertiti solo ora?», chiedono i poliziotti; ma il vecchio della panchina ricolloca il mondo nel decorso naturale delle cose, dicendo: «Farà bello domani, anche se era già bello oggi»), tutta la "sun patheia", che Luc si trova disposto a elargire, perché gli è stata chiesta, ma che avrebbe comunque concesso, tralasciando la sua vita quotidiana, il lavoro, la relazione con Vincent, per dedicarsi ad accompagnare il fratello. Un malato che non se lo meriterebbe nemmeno: egoista, che lancia segnali di aiuto e poi abbandona tutti nel gesto estremo e solitario, ma proprio quei monologhi sulla panchina con le disposizioni per la tomba, riescono ad assegnare a ciascuno una parte in tragedia e permettono di lasciare una traccia; e la condiscendenza di Luc permette che Thomas risolva il suo conflitto.


Sintomatico che i corpi manipolati, messi a nudo, esposti siano tutti maschili, non seducenti come potrebbero essere le gradevoli curve muliebri, ma nodosi, puntuti, spigolosi, ancorché atletici, eppure in qualche modo predisposti ad accogliere il decadimento e la rovina, destinati in qualche modo a trasformare il proprio apporto desiderante in qualcosa di diverso, se non di mortifero, certo senza ardore. Un languore che coinvolge anche la coppia omosessuale costituita da Luc e Vincent, che perde via via il desiderio. Una condizione maschile quanto era più femminile la pulsione corporale di Intimacy, tanto che Claire non ha le risorse per sopportare la debole degenerazione del corpo di Thomas: non lo comprende, non ne è intaccata, perché si chiede se si compiaccia di essere malato: non solo lei - come la madre - non sa come si sconfigge la malattia, ma nemmeno da che parte si guarda. Alla sua natura femminile non è evidente in cosa consista il vero lato insostenibile: Thomas confida al fratello: «La malattia lo so, mi tocca; è tutto il resto che è duro da reggere», di nuovo quel "resto" che torna prepotente a imporsi senza essere tangibile, come all'inizio; Claire cerca nel bacio passionale a Luc una possibile risposta, che sfocia in una risata liberatoria, che l'allontana ancora di più dall'universo della malattia. Quello stesso precluso al padre dei due ragazzi che impotente arriva a pronunciare una frase empia ma comprensibile nell'ottica di chi non trova alcuno scampo e che vorrebbe cercare una soluzione. Certo che può apparire atroce la scelta che traspare nemmeno velatamente da quel dirompente «Perché non l'ha presa tuo fratello questa malattia? Lui che saprebbe come affrontarla»... o forse che è già diverso. E quello è l'ultimo colpo alla pelosa pietà che contraddistingue l'approccio cattolico alla malattia, mentre qui Luc si può consentire di confermare a Thomas che si rompe le balle e nessuna smanceria ha cittadinanza nel film: solo corpi, medicine, consapevole contrapposizione alla malattia. Nulla di eroico, bello o commendevole: solo natura-lezza.