Editoriale

Editoriale/Reporter

7/3/2002
Porto Alegre a... Torino
Festival Internazionale Cinema delle Donne
La forza dello sguardo - Rassegna Cinema Massimo (Torino)

Resistenze:
c'è glocalizzazione e glocalizzazione
questioni di donne

C'era il rischio dell'agiografia e da come s'inizia Hanan: a Woman of her Time (e già il titolo del film che Mai Masri ha dedicato al mito palestinese Ashrawi nel 1995 evoca i cinegiornali) sembra di essere capitati nelle apparizioni televisive di Livia Turco nella sua cucina, solo trasportata a Ramallah prima di questa intifada; invece gradualmente il materiale si fa più interessante e storicamente documentato con foto d'archivio, riuscendo a ricavare un ritratto a tutto tondo della pasionaria del Plo. Quello che non manca è la polemica verso l'Authority palestinese, descritta nella sua corruzione e con precise denunce di discriminazioni mafiose che emergono dalle sequenze girate all'interno della associazione di cui è ideatrice Hanan Ashrawi e la figura della donna, il cui legame particolare con Gerusalemme consente di sintetizzare in poche parole e due immagini la questione di Al Quods: «Gerusalemme è cuore e testa dell'esistenza palestinese» diventa pretesto per fare il punto di tutto ciò che patiscono i palestinesi, allora nel 1995, come oggi in misura centuplicata: i checkpoint soprattutto ("simbolo dell'umiliazione del nostro popolo", dice oggi Barghuti) e poi le confische di terre, la distruzione degli ulivi, le botte ricevute dai coloni, prepotenti e arroganti; la precarietà. Tutti momenti documentati con precisione e partecipazione senza diventare parziali, che diventano pura narrazione drammatica in Hai Mish Eishi.

Il film di Alia Arasoughly ha il pregio doloroso di mostrare la quotidianità di donne diverse per occupazioni - una commerciante con i problemi che la contingenza bellica impone ai suoi affari, una segretaria di edizione televisiva, che permette di impostare un discorso interessante sull'uso della televisione, una persona di teatro che riporta la notizia che ogni volta che si spara la prima costruzione a essere colpita dai mortai è il Teatro, una ragazza benestante che sullo sfondo della sua villa rievoca la figura del fratello martire dell'intifada, di cui si propongono anche sequenze amatoriali di una Beit Jalla inedita, sotto la neve - e per età, per coinvolgimento emotivo e preparazione culturale e politica, ma comunque risponde al bisogno di proporre soggetti e non solo numeri di morti o feriti. Le intervistate hanno avuto la vita sconvolta da sempre e le sequenze dei blindati e dei soldati (quelli sì , anonimi numeri di matricola che sparano secondo ordini impersonali) sono le meno terribili rispetto ai ragazzini che arrivano a sviluppare la "febbre da bombardamento" da quanti traumi ha subito la loro infanzia, e questa attenzione ai bambini scaturisce dai primi piani negli interni precari nei quali si nota la ricerca dello sguardo smarrito, in cui si specchia quello consapevole e determinato delle donne intervistate. Esse riescono a essere individui con le loro storie e contemporaneamente la loro narrazione sempre al plurale, perché coinvolge iin ogni frangente la solidarietà di tanti, finisce con fondere tutti questi "noi" diventando un soggetto unico, una donna filmica bombardata, un personaggio quasi di fiction fabbricato dalla unione di tutte le donne palestinesi, accomunate dai bombardamenti e dalla precarietà; madri coraggio e piangenti, nonne indignate e come scolpite nei loro ulivi sradicati a radici all'aria in un paesaggio di contro-natura: infatti è proprio l'anziana vittima dei coloni a pronunciare la frase che dà titolo al film: "Questo non è vivere. Da due anni hanno cominciato ad appropriarsi della nostra terra. Ma la nostra terra è loro?". Il filo rosso di tutto il documentario, che dura 42 minuti, è la assenza del diritto: senza soluzione di continuità si passa da un caso all'altro e in ognuno si rintraccia questa domanda di giustizia e uguaglianza. Principi della rivoluzione francese che sfuggono agli orchi padani come ai coloni ultra-ortodossi che hanno reso clandestini i palestinesi nella loro terra e come i legaioli li trattano come tali, sottraendo ogni diritto in virtù della forza bellica. e allora diventa chiaro il percorso della regista, sempre corretta e che mai trascende nell'insulto, che in ultimo dà conto del bisogno di difendere la propria terra e per questo si narra la vicenda del martire ragazzino ricco, ma in ogni famiglia ci sono (c'erano, con l'exploit di Sharon saranno aumentate le percentuali) cinque, sei martiri. conclude poeticamente sui fiocchi di neve ripresi nel suo ultimo capodanno, come se fossimo in L'amour a mort di Resnais, dove la sospensione della vita trasportava in mezzo ai fiocchi.




E di nuovo una ragazzina occhieggia nell'atrio del teatro Nuovo da un manifesto, come da dietro la menta di El Batalett, lei ci accompagna in mezzo a queste timide donne marocchine che di fronte all'obiettivo giocano ad aprirsi un po', come la bambina seminascosta da una pianta di menta che dice: «Il viso si nasconde perchè è timido». Sembra una condizione di tranquilla infanzia, ma poi comincia ad estendersi lo sguardo sui tetti, eterne terrazze dove tutto appare immoto e invece si fanno incontri, si stendono panni e si installano "ombrelli" per prendere Al Jazira, «che dà notizie e dice la verità». Dopo questa battuta la piccola comincia a darci un assaggio della sua consapevole ingenuità, che è simile a quella sapienza di vita delle protagoniste del video, camuffata da condiscendenza: sguardi spalancati sul mondo, a partire da condizioni di vita quotidiana difficili. E allora la giovanissima attacca a parlare di visti e si apre una vicenda di migrazione finita nella prostituzione di una donna che vediamo quasi sempre in ginocchio, umanità dolente e carica di sofferenze, inginocchiata quasi a confessare la sua storia, ma senza perdere tempo, continua a impastare; e lo stesso fa la lavandaia, che non s'interrompe per parlare, eppure il suo spirito è così forte da sorridere per tutto il tempo, prodursi in autoironiche prese in giro («sport? tutta la vita ho fatto sport», simulando il trasporto dei secchi d'acqua) e tra il sogno della macchina da lavare e la lisciva riusciamo a farci un'idea della vita e dei pensieri di donne che da millenni fanno lo stesso lavoro, faticano, come faticherà la bambina della menta. e alcune temono di parlare di politica, altre invece provocano il discorso politico: molte piangono di fronte al televisore che rimanda i funerali di Assan, il sovrano massacratore delle genti del Polisario, ma perché sono abituate dalla nascita a vederlo, ad averlo come riferimento unico e assoluto, non per la sua politica piangono, ma per l'immagine di Marocco che incarnava. Abitudine, quella stessa che le conduce a continuare un'esistenza di lavoro e stenti, con figli inviati in Europa (e qui s'inseriscono le immagini da Ku Klux Klan che Al Jazira rinvia dalla Andalusia, dove in quanto a linciaggi di migranti non hanno nulla da invidiare ai centri di accoglienza italiani). Madri che preparano la festa per l'avvento del 2000, scambiandosi dubbi, timori e quando si parla di diritti - di nuovo questi benedetti Diritti, sottratti, negati, sbugiardati, messi in discussione dal complotto internazionale - si chiedono stupefatte: «Quali diritti?». Infatti di nuovo la bambina si trova alle prese con i visti; ed è interessante che lei li ponga in relazione con nazioni lontane e con un po' di rimpianto le percepisce come molto diverse dalla Medina, sminuita dal fatto che «Solo per la Medina non servono». Un esilio che la regista riesce a impacchettare con quel nome evocativo che spegne la luce negli occhi della bambina della menta, quando conclude: «Significa che uno di questi giorni alle sei del mattino ce ne andremo».


Eppure speculare permane anche il fascino opposto, quello perduto nel ricordo smarrito dell'oriente che non è più, dove Oriente è concetto alternativo a Occidente: lo si è visto in La Danse du feu della tunisina Selma Baccar, un film del 1995 - e si vede quanta storia sia trascorsa in questo decennio! - affascinante per la presenza scenica della danzatrice dibattuta a metà tra cultura propria e senso di soffocamento che le dà la tradizione e contemporaneamente il rifiuto dell'occidente a consentirle di attingere a pieno ai classici francesi, amati a Parigi, come gli uomini, che una volta trasferiti in Tunisia perdono il loro fascino, immersi nella ricerca di una loro idea di esotico che non ritrovano se non nei libri. Nemmeno la danza, che contiene il lubrico naturale e la grazia ritrosa, i turbini dello spirito turbato e l'applicazione, non è in grado di emancipare fino allo sconforto, il vicolo cieco e la morte come unica scappatoia da due differenti costrizioni alleate nel loro antagonismo gretto per stritolare chi cerca di aprirsi al meticciato.



La stessa cosa avviene alla regista di Civilisées, Randa Chahal Sabbag, che nel 1992 aveva fatto Ecrans de sable: un freddissimo esercito di stile, pretenzioso, ma che contiene i prodromi per il capolavoro successivo: la figura interpretata da Maria Schneider anticipa la ricca reclusa dell'appartamento di Beyruth, mentre l'ambiente asettico riesce a evidenziare l'assenza di anima di una società svuotata dall'assunzione di parametri stranieri senza elaborazione; studiatissime ed efficaci le posture dei personaggi che occupano lo schermo interagendo come manichini, permeando lo spazio di impacci e attese, che sono le vere padrone del film: solo nel finale i corpi si liberano lasciandosi andare a una passione letale, che si consuma sì in ascensore, ma nell'ultima notte si sviluppa nella casa avita in mezzo al deserto («Il deserto si vede solo di notte»), casa abbandonata e zeppa di ricordi perduti, di modi di vita irripetibili nella biblioteca vuota di libri - e di cultura - con un unico computer, solo mezzo di comunicazione. L'intreccio è arzigogolato e concettuale, ma la realizzazione sopperisce alla sceneggiatura, criptico e involuta, per trasmettere il dolore per un paese svuotato dalla sabbia che lo va sotterrando, che è nominato come lontano, ma in realtà trova uno specchio gelido nell'universo di quella città.




Sorprendente come le donne iraniane abbiano moltiplicato esponenzialmente la commistione tra il gusto persiano dei film dove è evidente l'impronta della luce del golfo Persico con le suggestioni che provengono dall'apertura lasciata socchiusa da Khatami: oltre la figlia d'arte e l'intera famiglia Makhmalbaf ci sono sguardi alternativi, a volte strabici e virati sul genere perseguito fino all'annullamento dell'ispirazione per decretare la propria appartenenza al linguaggio cinematografico globale (l'orrido Love without Frontier di Pouran Derakhshandeh, che rispetta il programma di telefilm americanizzato promesso dal titolo), oppure per percorrere territori inesplorati dalla propria cinematografia, come i due splendidi melò di Rakhshan Bani-Etemad tinti di noir (Nargess, 2000) o interpretando il neorealismo nazionale con quei buoni sentimenti che furono di De Sica nel nostro (Rusari Abi, 1995) e che trova luminosi esempi nel cinema egiziano di trent'anni fa (Al Haram di Henry Barakat, 1965): in entrambi i casi si sfiora il paternalismo del padrone attempato verso la donna sfigatissima e fiera, che sacrifica tutto e su cui la famiglia conta per far fronte alle avversità (qui è la madre tossicomane e la condizione umile simbolizzata dal treno che nel finale tagla il quadro e divide i due destini, nel film egiziano era la vergogna di uno stupro della mondina stagionale). E poi ci sono prodotti originalissimi, anche se l'apporto alla sceneggiatura di Moshen Makhmalbaf si sente in Roozi khe zan shodam: tre episodi, in cui si affrontano tutti i temi classici del cinema iraniano - mondo dei bambini, adottato per semplificare e quindi interpretare i fenomeni; lo scontro contro l'ottusità del potere (maschile, religioso, tradizionale, sopraffattore), dove si svela il valore simbolicamente rivoluzionario di emancipazione della bicicletta per il regista di Il ciclista, un mezzo che ad ogni latitudine si dimostra in contingenze simili l'emblema della libertà da conquistarsi a denti stretti e con fatica; la visione fuori dalla realtà dei vecchi, che fabbricano il loro mondo, tirando le fila delle età precedenti, anche visivamente, vista la compresenza sulla spiaggia della bambina ossessionata dall'ombra, come della giovane sposa ripudiata e bloccata nella sua corsa ciclistica per le fisime di un marito padrone (a cavallo come in un western, a contrapporre anche in uno slendido gioco sonoro il ronzio dei raggi della bici nel vento dell'isola di Shin allo scalpiccio arrogante e imponente dei cavalli del mullah e dello sposo integralista).


L'inizio del film di Marzieh Meshkini (nata nel 1969) sembra una di quelle inquadrature a cui ci ha abituato Kiarostami: un cortile di una casa, quasi una intervista come quelle del film marocchino di Medina, con le donne che si distraggono per l'intervento estemporaneo di un ragazzo che fa uno scherzo. Invece qui, si comprenderà poi, si inscena la sintesi di tutto ciò che avverrà dopo: le tre età. Una nonna, depositaria della tradizione sa che la nipotina che compirà nove anni a mezzogiorno ha concluso il suo periodo di libertà; la madre s'impegna a confezionarle lo chador, prendendo le misure, un sudario che finirà appeso a un albero di una zattera improvvisata; la bambina sogna di riprendere i suoi giochi.
Concertato con una precisione assoluta, il prologo si apre sul primo atto, dove l'ossessione per la donna protagonista è l'ombra del bastoncino che assottigliandosi progressivamente consuma i suoi ultimi minuti di libertà dalla costrizione tradizionale. e sono attimi che vorrebbe mettere a frutto, ma con la stessa gradualità le vengono sottratti dalla sorte (l'amico è recluso per i compiti), s'industria a condividere attraverso le sbarre della scuola l'ultimo lecca-lecca, va sulla spiaggia a rimirare la costruzione della zattera (una di quelle che ritroveremo nell'epilogo). ma non c'è gusto: lo sguardo va a posarsi dolorosamente attirato come da un incanto ipnotico su quel bastoncino, su quell'ombra scomparsa, che nel momento in cui sparisce è ghermita dallo chador.
Già nel primo episodio c'è una particolare attenzione al sonoro che travalica il suo ruolo e ci fa assaporare lo schiocco delle labbra sul chupa chups ghermito con gusto e poi la risacca, ma l'episodio - già un po' onirico - della bici come mezzo diabolico non confacente all'onore di una donna alterna impeccabili riprese nel gruppo e soggettive della donna al rumore del vento (come solo Naderi prima aveva ottenuto) che schiocca sul chador gonfiato dall'aria nello sforzo della gara, soppiantato dalla musica che una concorrente ascolta - estremo gesto di sfida? - con il walk(wo)man, ma soprattutto quell'ossessivo tramestio degli zoccoli al galoppo, che incombono molto prima di apparire in scena, la protagonista se li sente addosso come la bambina provava il disagio soffocante dell'ombra. E alla fine ghermiscono pure lei, utilizzando pure il rallenti sulle zampe dei cavalli, quasi epici a confronto con lo slancio della bici, novella Easy Rider iraniana nell'appaiarsi del marito padrone prima e poi con la costrizione alla fermata, ripresa da un ispirato piano sequenza che sposta sulla antagonista il privilegio della soggettiva, lei che vince per quell'intervento esterno, ma assiste amaramente alla scena con una certa apprensione che si prolunga nel campo lunghissimo attraverso il quale assistiamo al debellamento della prova della ragazza.
L'ultimo episodio stringe moltissimo il primo piano su una nonna in carrozzina servita da uno stuolo di bambini, che con un'eredità va a comprare mobili e utensili domestici per allestire una casa... ma la casa non c'è: s'installa su una spiaggia, in riva al mare e poi addirittura prenderà il largo su alcune zattere che portano mobili, frigo, letti, teiere... liberandola definitivamente di incombenze e ricatti maschili: infatti viene magistralmente raccontata la storia della ciclista con quel misto di stupore e affabulazione che la rende una favola terribile, intanto la bambina dell'ombra assiste al varo delle zattere e lo scambio di sguardi è significativo come il drappo nero chador che funge da vela.


Meno ispirato e più convenzionale è il cinema di Rakhshan Bani-Etemad. Non per questo il melodramma noir di Nargess non è a livello dei paradigmi a cui si ispira: i noir americani e francesi dei tardi anni quaranta, inizio cinquanta: fin da subito Adel incarna lo sbandato con cuore e fin da subito l'intreccio unisce passione e piccolo crimine, borseggio e amicizia tra malavitosi, che avrebbe potuto prendere una piega anche scanzonata se non fosse per la figura dolente di Afagh, la complice in tutto, prima che il caso faccia incontrare e sposare Adel e Nargess. Da qui si sviluppa un bel triangolo, dove s'impongono le regole dell'amour fou, con tragedia finale, persino esagerata, perché è come una ciliegina su una serie di situazioni filmiche rivisitate con mano pesantissima, eppure accettabile per levità delle situazioni: questo è il pregio del racconto, di rendere una volta di più plausibili stantii meccanismi del racconto, che risultano ancora freschi nonostante l'evidente citazionismo, fin dalla sequenza iniziale ritmatissima e fotografata con angoli che già indirizzano verso il gusto che si vuole far adottare al pubblico che senza quella indicazione sarebbe sviato dal racconto, invece è proprio il noir l'ambito scelto dalla regista, che poi si diverte a inserire oggetti (il carillon), schermaglie (le pulizie dopo il matrimonio), personaggi (l'anziana impiombata nel letto), abitazioni (il ballatoio del ricettatore, ma anche il monolocale di Afagh con le foto anni cinquanta di Elvis confuse con altri collage sul muro sbrecciato): tutti ambienti che esulano dall'immaginario associato finora al cinema iraniano: dovunque ci si volti è ingombro di oggetti, cianfrusaglie, un bric-à-brac confusionario, che umanizza il dramma altrimenti puramente cinematografico («Non puoi aprire il tuo cuore al primo che arriva»).