Editoriale

Editoriale

13/2/2002
Porto Alegre a... Torino

Resistenze:
c'è globalizzazione e globalizzazione
questioni di generazione ma soprattutto di pelle

Si comincia da lontano: Papua - Nuova Guinea, distribuzione Coe. Tinpis Run è un furgone adibito a taxi che come l'araba fenice risorge più volte dalle sue ceneri, ogni volta per collocarsi nelle corde di un road movie che soddisfa il bisogno di trovare un'espressione alla propria esigenza di liberazione da ogni costrizione: quella di una cultura che sottomette i giovani e la strabordante occupazione di ogni spazio da parte dei modelli occidentali. Spesso il film si piega alle esigenze della documentazione antropologica, che rischia l'esotismo, seguendo canoni imbarazzanti per uno sguardo occidentale che si sente colonizzatore, quando è sorpreso a sbirciare le "guerre" inscenate con piume e frecce, finché al cospetto di una assemblea, convocata su uno stradone - e interrotta dai camion che devono passare - per risolvere i dissidi, ci accorgiamo di assistere a civilissime composizioni del conflitto, impossibili nel mondo dei cow-boy, perché il presupposto è diverso. I due contendenti qui si rispettano e si trovano a un livello paritario, l'intrusione dei camion è come se avvenisse in un mondo parallelo, e questa è una via di salvezza perché evita di confondere culture e riferimenti che inscenano quella globalizzazione di sopraffazione, da cui rifuggire; per la cultura dominante americana invece il rivale va demonizzato: un atteggiamento moralista e ipocritamente puritano non consente di combattere i rivali se non come emanazioni del male, invece da quelle guerricciole da operetta inscenate dai papuasi riemerge il sano motivo del contendere: una futile lite tra alcolisti, tuttavia enormemente più umana del petrolio camuffato da lotta al terrorismo programmato e spettacolarizzato da modellini di aerei autentici schiantati su grattacieli. Qui si trovano riportati alla furia di King Kong ma solo fino al tramonto. Non significa che il sistema tribale vada assolto: lo scetticismo del ragazzo di fronte all'improvviso pacifismo del capo, proprietario di Tinpis e padre della ragazza, di cui è innamorato, è esplicitato denunciando la conversione come frutto del ferimento in battaglia.

Stesso scetticismo dei giovani di Dakar in Faat Kiné, dove si prepara lungamente l'invettiva finale: "Siete la vergogna della nuova Africa, ipocriti", sparata in faccia al proprio padre da parte di Djip, colto giovane allevato dalla ragazza madre che dà verve e titolo al film, tratteggiando un delizioso ritratto di donna sicura, decisa e positiva; sostenuta da altre due quarantenni sue amiche da sempre, che insieme costituiscono una roccaforte di diritti e indipendenza, di modi di agire fuori dalle convenzioni, donne realmente libere. I giovani anche in questo caso hanno progetti per le loro terre, Djip vuole frequentare l'università a Dakar per essere utile al proprio paese (e non venire forgiato dalla mentalità occidentale), innumerevoli sono i poster di saggi senegalesi e padri dell'Africa indipendente nella casa dove la nonna, scolpita nell'ebano e carica di storia a cui riferirsi come a un monumento, rappresenta un possibile baluardo proveniente dal passato per trovare valori da contrapporre alla vacua pochezza sussiegosa dei padri falliti con i quali Faat Kiné aveva generato i due figli.

Quel passato ci viene centellinato attraverso tre inserti in flashback, ritagliati su tre episodi della vita della dirompente protagonista, il primo dei quali è introdotto sapientemente attraverso un racconto quasi mitico della nonna, quasi un dolente e dignitosissimo griot, figura immensa, statuaria che trae dalla ignobile punizione atroce subita dal marito-padrone un'enorme forza morale che le conferisce spessore emotivo (altro che carisma di Mastro Lindo occidentale) a partire da quell'inquadratura a tutto schermo della sua epidermide ancora giovane, bruciata dal marito per la colpa della figlia, una immagine choc che è summa e culmine di quel flashback evocativo, capace di tratteggiare il mondo di ritratti femminili che Sembene ha inaugurato con La noire de..., ma soprattutto di condensare in un'inquadratura i danni fatti da una generazione impreparata che ha finito con l'applicare i metodi dei colonizzatori alla famiglia ("tu sei l'emblema di un neocolonialismo liberale, un africano dell'epoca coloniale"), vessando le donne e disinteressandosi dei figli dai quali si pretende venerazione: quell'inquadratura nasce da uno stacco sul gesto del fuoco che invade lo schermo e poi indugia su sfumature scure, un indaco non uniforme, perché piagato, dapprima non riconoscibile - può sembrare terra viva, che respira, solcata da ferite - e poi con il lento allontanarsi della macchina da presa si rivela essere la schiena bruciata di Mammy.

E ritroviamo nel cinema più volte in questo periodo le stesse deturpazioni della persona in ciò che più identifica l'individuo: il suo aspetto. Sottraendogli diritti scavandoli sulla sua pelle, che lo stesso torturato si nega, schermendosi per pudore, coprendo e nascondendo il marchio sulla propria pelle, intessendolo magari in tappeti che comprendono l'intera storia narrata, La leggenda dell'amore di Mehranfar, un altro viaggio, questa volta tra le montagne kurde alla ricerca di un uomo, di un amore, di una traccia che da sonora si fa manufatto nel tappeto su cui diventa macchia di rosso, di sangue, un tappeto-leggenda costellato di tutte le visioni e i colori del cinema iraniano: si trova un compendio soprattutto delle sinestesie di Makhmalbaf, ma anche l'attenzione etnografica di Kiarostami, dove si sviluppa il dialogo a distanza con l'amato inseguito con l'aiuto di personaggi i più disparati in un contesto di guerra. Auschwitz e il numero spersonalizzante tatuato sul braccio hanno lo stesso valore di quella punizione di Mammy nel film senegalese, una donna che ha il coraggio immenso di non portare il lutto per un marito che l'aveva bruciata, cominciando a essere d'esempio per le donne del film.


Un dato ricorrente non casuale ora, che di nuovo chi si sottrae al pensiero globale, inteso come imposizione culturale, è automaticamente bollato, "marchiato". Quell'immagine di Sembene Ousmane lasciata nell'epidermide della senegalese riaffiora ai miei pori pochi giorni dopo nell'Asia di Imamura, assistendo a una proiezione di Kuroi ame. Lì è iniziato tutto, in quel 6 agosto 1945 sono state poste le basi per sradicare, scorticare, conglobare l'Altro da sé.


L'azzeramento di Hiroshima è preludio per quella cultura di un annullamento feroce, le immagini tracopiate dalla tradizione nipponica del cinema galleggiano in un limbo agonizzando languidamente, come i soggetti che sopravvivono nella loro paura e nel sospetto di chi non fu contaminato, ispezionandosi, non riconoscendo più il proprio corpo in trasformazione, piagato, anche nella bellezza negato ai piaceri del sesso o agli affetti, morente come i sopravvissuti che vediamo accompagnare gli irradiati "presi dalla bomba" in uno stillicidio atroce preannunciato da una spossatezza indicibile; ricordando di nuovo in tre flashback, come nel film africano, gli istanti allucinanti della bomba, il passato viene attualizzato da un espediente del regista che adotta non solo il bianco e nero per fissare quel momento fotografato nell'immaginario di tutti senza riproduzioni a colori, ma anche la tecnica di ripresa, la fotografia contrastata dalla luminosità degli esterni e i tagli dei piani che ricalcano con fedeltà il cinema giapponese di quel tempo.


I momenti di comunanza tra diverse tradizioni non sono casuali: la pelle è il primo e più sensibile elemento di contatto, tanto che Faat Kiné in una sequenza priva di commenti, tutta affidata allo sguardo e al gesto, depone una moneta in ogni mano dei piccoli lebbrosi che questuano silenziosi in fila indiana, poi ogni civiltà sviluppa le proprie ansie in modi diversi e il singolo autore ha le sue ossessioni: in Fahrad Mehranfar il centro è la musica derwish che assume tra quei monti il valore di atmosfera irripetibile, una sinestesia che consente di captare la presenza del giovane medico andato sui monti con i peshmerga, morto eppure presente nel trasognato viaggio della giovane che ci accompagna sui monti, e interlocutore tangibile, in carne e ossa (una forma ancora diversa di carnalità, di sentire nella pelle la presenza); nei film di Imamura è l'acqua a ricoprire un ruolo di primo piano: di dirompente vitalità fertile in Akai Hashi Noshitano Nurui Mizu e di mortifera condanna nelle gocce di pioggia nera che colpiscono la ragazza sulla zattera di Kuroi Ame, preludio di un paesaggio apocalittico, dove una madre culla un figlioletto legnificato, tutte le vittime si aggirano come zombies in un paesaggio di rovine fumanti. Un fratello non riconosce la maschera deformata che gli sta di fronte. Quello fu l'inizio del cambiamento di atteggiamento degli Usa nei confronti del mondo: si fecero gendarmi, fondarono la Cia, esportarono il modello che vedeva tanti stati canaglia dovunque ci fosse un dissenso, una resistenza culturale alla penetrazione dei loro metodi assunti come unici, imperiali, neocoloniali.

Quella prima bomba non è ricordo perché è sempre presente nelle carni di chi era a Hiroshima e anche nella cancellazione di espressioni artistiche come gli jizo di pietra scolpiti dal reduce ossessionato dai motori (altro marchingegno associato ai tank che spianano le culture diverse come un bulldozer israeliano a Gaza), dunque i flashback di Sembene come quelli di Imamura non sono realmente tali, ma si incastonano nel flusso di coscienza che delinea un'interpretazione della realtà critica nei confronti dell'evoluzione intervenuta da un qualche momento in avanti, sporcando, sterminando, riuscendo a immaginare la possibilità di cancellare città, nazioni, etnie.