Editoriale

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16/11/2001
E' uno sporco lavoro...(3)
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Operai, Contadini

  • 200.000 metalmeccanici in piazza a Roma, oggi 16, novembre 2001. Per un contratto firmato proditoriamente da rappresentanti fedifraghi, per un diritto al lavoro e contro il prossimo paternalismo feroce di chi licenzierà senza remore chi è fastidioso o pretende regole, chi non vuole essere schiavo.

    Lo statuto nacque con le lotte degli anni sessanta e Vittorini era già morto da pochi anni, invece vide sorgere la repubblica fondata sul lavoro da quel bagno di sangue che i predecessori di questo governo fascista imposero al popolo italiano.

    16 novembre 2001, Torino film festival. Operai, Contadini s’inizia con un campo bianco, il titolo nero e una stella rossa: gli stessi colori di Cinemah. Un lavoro di Vittorini poneva a confronto bisogni e tempi delle due realtà italiane, di tutta l’Italia; ed è interpretato dai due più italiani tra i registi del festival: Straub e Huillet.

    Il bosco ospita nei loro film i racconti più affabulati: ricordo un carretto su una strada polverosa che percorreva Dalla nube alla resistenza, sulla falsariga dei racconti di Nuto (La luna e i falò), e poi Empedocle… Probabilmente perché nei boschi si nascose la resistenza, radice di ogni principio eticamente accettabile, ma in questo film tratto da Vittorini come Sicilia! si allude direttamente alla funzione importante del rimboschimento: "Il lauro più rapidamente rimboschisce, fa buon odore, è sempre verde e il più adatto per legna da ardere". E anche stavolta il racconto si svolge integralmente in un bosco, dove sono collocati i personaggi del racconto, che però non recitano, leggono, sempre nella stessa posa in cui li abbiamo visti (tranne un gesto della donna amata da ‘Faccia cattiva’ — il quale alla fine è talmente mutato da non avere più il soprannome — che gli si rivolge senza interpellarlo): sono puri corpi, presenze, esattamene come il mondo del lavoro è stato finora dalla fine della guerra — quella precedente —, mute figure, che adesso danno fastidio pure così: devono trasformarsi, come si dice nel film delle pretese degli operai, che secondo i contadini avrebbero voluto — in quella comunità egualitaria — che si tramutassero anche loro in operosi indaffarati costantemente, senza rispettare i ritmi della natura. Ora è lo stesso, ma la pretesa non è più l’inurbazione forzata e la sparizione della tradizione agricola, adesso si tratta di eliminarsi come lavoratori in omaggio alla virtualizzazione, o comunque — se proprio si vuole perseverare nel lavoro — che lo si svolga senza disturbare, magari evitando anche di agit(-prop)arsi nelle piazze romane. Il film presenta un impianto che trascende il teatro, l’azione ridotta a pura parola, ma senza sottrarre i corpi, in un equilibrio tra questi e il testo; e spesso lo stesso episodio viene proposto in più versioni dai differenti protagonisti. Ma a cosa tende questa affabulazione pura? A rappresentare il cambiamento, la trasformazione dei due gruppi, gli operai stemperano il loro rigore fatto di regole e lavoro costante, i contadini mantengono la propria simbiosi con la natura resistendo al fatto che "era una vita già così dura", prendendosela con calma, ma cominciando a collaborare al puntiglio degli altri, producendo per la comunità il nutrimento: luce elettrica e ricotta, la scoperta del sole alle tre di notte. Una società solidale.

    I due registi dispongono i loro operai e contadini in due stuoli che leggendo lasciano trapelare il testo, non lo violentano, non lo "intrerpretano", non lo recitano, ma si propongono come stereotipi — dietro ciascuno di loro ci sono migliaia di altri loro simili —, eppure sono individui con nomi che impariamo ad attribuire alle facce, come si fa nelle letture dei libri dove mancano i referenti che interagiscano come figure visibili, e allo stesso tempo sono narratori di se stessi. Protagonisti, quanto invece il neoliberismo imperante vorrebbe relegarli a comprimari. Tanto che ci viene sciorinato un elenco, utile per creare un repertorio di persone, dove il pretesto è sancire il fatto che quelli che se ne andavano dalla comunità, considerando l’esperienza asfittica forse, erano tutti operai, avanguardie che imponevano i loro punti di vista sui contadini, ma anche meno stanziali, meno legati alla terra e dunque più disponibili a dichiarare conclusa un’esperienza. Salvo poi tornare, passato l’inverno (un triste inverno di defezioni, scontri, liti: l’inverno del nostro scontento, citando Platonov), del quale non potevano sopportare l’inattività, che invece i contadini lasciavano scorrere seduti, nella stalla, con un po’ di vino, magari a fé la vià, che poi è la stessa operazione cui stiamo assistendo, se ci lasciamo avvolgere dall’operazione compresa tra una panoramica di 360° a destra che scandaglia il bosco, lasciando spazio alla natura e allo sciabordio di un torrente, e una panoramica a ritroso alla fine, nel loro classico stile, emergendo dalla boscaglia, lasciando che lo sguardo si allarghi, dopo che la trasformazione di ciascuno (a parte ‘Fischio’, fermo sulle sue posizioni massimaliste) amalgama la società di lavoratori. In particolare i due autori fanno spazio alla figura di ‘Facciacattiva’, che arriva a svolgere anche lavori contadini, a sentire la fragranza del latte durante la produzione delle ricotte.

    Troppo bello quando i confronti vertevano su modi di intendere l’applicazione del proprio impiego ("Gettarsi nel lavoro è l’unico modo per evitare di cedere alla tentazione di lasciare tutto" dimostra l’innaturalezza del lavoro), ora non c’è possibilità di esprimersi nemmeno sul proprio contratto e altri — venduti — decidono della bontà dell’offerta della controparte. Troppo bello quando il cinema era essenziale al punto da limitarsi a pochissimi movimenti, scarne recessioni della mdp che preludono al passaggio all’altro campo, all’altro punto di vista; quasi un ritrarsi di fronte a una weltanschauung per poter acquisire l’altra.