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La Polveriera - Bure Baruta
Anno: 1998
Regista: Goran Paskaljevic;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Yugoslavia;
Data inserimento nel database: 01-05-1999


Bure Baruka
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BURE BARUTA


Regia: Goran Paskaljevic
Soggetto: Dejan Dukovski
Fotografia: Milan Spasic
Montaggio: Petar Putnikovic
Muzika: Zoran Simjanovic
Produttori: Mact, Ticket, Stefi, Mine, Vans, Canal +
Formato: 35 mm.
Provenienza: Yugoslavia, Grecia, Turchia
Anno: 1998
Durata: 124'
MIKI MANOJLOVIC ... Mane
LAZAR RISTOVSKI ... il pugile
MIRJANA JOKOVIC...Ana
1976 THE BEACH GUARD IN WINTER
1977 A DOG THAT LIKED TRAINS
1979 EARTHLY DAYS ARE FLOWING
1980 SPECIAL TREATMENT
1982 TWILIGHT TIME
1984 THE DECEPTIVE SUMMER OF '68
1987 THE GUARDIAN ANGEL
1990 TIME OF MIRACLES
1992 TANGO ARGENTINO
1995 SOMEONE ELSE'S AMERICA
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"Questa sera ve ne faccio di tutti i colori". Ed è andata davvero così: sia nel livido Balkan Cabaret, sia nel vero e proprio scenario balcanico, più estremo e meno affascinante, perché il bombardamento brutale e sistematico diviene uno squallido lavoro vacuo, quando è privo della lucida disperazione diffusa come un'epidemia folle tra i mille personaggi che si intersecavano nella notte belgradese prima che esplodesse l'attuale catastrofe, la NATO è incapace di restituire l'inebriante fragranza della violenza senza regole che prelude alla catastrofe: l'atmosfera del film è pregna dei sintomi di un malessere che serpeggiava per le strade. Incontrollabile: una sorta di energia compressa incapace di scaricarsi e che dà la stura a comportamenti eccessivi e autistici di persone che si sentono condannate senza motivo e si sforzano di accelerare il castigo, ricercando i colpevoli. Nei primi cinque minuti almeno quattro persone hanno usato il dito medio per svillaneggiare l'antagonista occasionale. Un riferimento iconografico potrebbe venire dalle tavole di Elki Bilal, mentre l'atmosfera è debitrice delle fanfare della Cociani Orkestra, non tanto per la frenesia, come per i film di Kusturica, quanto per lo struggente stato d'animo che quelle musiche esprimono nella loro pulsione a muoversi come tarantolati verso una condizione diversa, che invariabilmente nella tradizione serba non può che essere peggiore di quella precedente da cui si fugge.

La realtà televisiva, filtrata ed edulcorata, sommata a quella lasciata alla nostra immaginazione dal paesaggio apocalittico di rovine, è più agghiacciante con il suo corollario di "danni collaterali" e umane miserie. Ma la mefitica capitale danubiana del film notturno riempie di paure ancestrali, toccando corde irrazionali, che vanno oltre l'indignazione per la furia insensibile; la totalità dell'inquadratura è sempre poco rassicurante, colma di oggetti ostili, figure in procinto di sfogare la propria rabbia repressa senza possibilità di recessione, con brunite tonalità malaticce. Durante la proiezione la tensione sorge dalla consapevolezza di essere di fronte all'istante in cui la miccia accesa sta raggiungendo l'esplosivo: infatti l'ultimo fotogramma, prima di chiudere l'anello cabarettistico, contiene finalmente il bagliore accecante, dopo aver condotto parossisticamente i racconti oltre la soglia della esplosione, mostrando i dettagli soprattutto emotivi dello sbocco violento di un lunghissimo processo, che proviene dal profondo di ognuno e ha radici nel passato, però senza arrivare alla catarsi, lasciata sempre fuori campo, fino al fuoco finale. Un esempio di sospensione di questo fato incombente è la vicenda del taxista, che fa da anello di congiunzione tra le vicende: uno degli episodi mostra lo stato di prostrazione di un ex-poliziotto a cui hanno spaccato ventisette ossa ed il rene, egli viene punito a sua volta, perché, senza poterne spiegare la ragione, aveva mutilato la vittima, poi divenuto carnefice alla ricerca del piacere sottile di sentire raccontare la sua impresa dal nemico: fa parte della sua vendetta, ma poi non riesce a goderne. Ecco, l'intero film si dipana sull'alternarsi di questi ruoli: esplicitamente nell'episodio dei due amici che boxano e si confessano tradimenti alternati a colpi, fino all'epilogo atroce non mostrato neanche nella sua coda dilaniante in treno, nascosto da un'ellissi, più significativa dell'immagine stolta di n missile intelligente che si dissolve nel suo ob(b)iettivo; più sommessamente si rivela questo rapporto vittima/carnefice anche nella vicenda del giovane bosniaco figlio dell'autista di pullman, il cui ruolo si ribalta in un brevissimo lasso di tempo: dal mirabile riassunto del film con la riedizione delle battute di gelosia appena ascoltate, pronunciate con un registro che le rende ancora più irrazionali e ridicole, ad innocente braccato e lapidato, punito forse per la sua debolezza nel frangente della coppia seviziata, che si ripromette di non litigare mai più, ma si sente che l'esperienza rimarrà tra loro insormontabile, come il colpo secco di pistola fuori campo a concludere la sequenza.

L'interetnicità è sottolineata in ogni momento, ma nell'aspetto deleterio della divisione e del rifiuto di qualunque integrazione: il passato rimane troppo importante in quelle terre ed è un passato di distinzioni nazionaliste, espresse con soperchierie e indifferenza infastidita (la profuga dalla Bosnia irrisa dall'automobilista a caccia della sua vendetta).

Per ognuno sono riservati due momenti nella notte, diversi; e nessuna storia ha un lieto fine.

Tutto ciò è connesso al fatto che ogni particolare legato al sangue in Serbia è sia maledetto che benedetto (come si legge nel resoconto dell'inviato papale in Kossovo nel 1389), in un intreccio indissolubile: nella storia di fiere sottomissioni e spinte indipendentiste, rivolte e massacri, compendiati con sarcasmo nello splendido episodio del bus dirottato. Non c'è modo di deviare il corso del destino. Questa certezza non può che imporre l'atteggiamento spietato che tutti dimostrano a partire dal vecchio che suggerisce di sfondare il parabrezza del ragazzo impaurito nell'auto (ma che aveva terrorizzato la ragazza, tacchinandola con insistenza), passando per il terribile nichilismo del ceceno tradito da Tito nel '68, che da allora non crede più in nulla, fino a Gosta, nuovo fidanzato di Natalja, che non perde l'occasione di disfarsi del rivale in modo anche umoristico. Altro aspetto della cultura slava è questo gusto dell'improvviso motto di spirito o della situazione comica manifestata nei modi e nei frangenti più tragici, siparietti auto-ironici nei quali si intromette qualche nota musicale struggente o scatenata.

Rivelatori sono alcuni dialoghi che contengono il fatalismo che ha consentito ai potenti di trascinare quelle genti in questa guerra: "Ci sono cose che non si possono sistemare" e tutti i vetri della casa del mansueto padre di Alex (macedone) vanno in frantumi, nonostante l'offerta della grappa fatta in casa, che sembra creare un'oasi amichevole: è un attimo, in tutto il film si tende a prendere in contropiede lo spettatore disponendolo a momenti di ragionevolezza che preludono solo ad uno scoppio d'ira.

Non è il ritratto di una Nazione, ma dei guasti derivanti da una convivenza coatta di sensibilità diverse, lo scherno non è diretto contro i cittadini di Belgrado ("In questa città sono tutti matti"), ma contro le prassi consolidate: infatti il ragazzo cerca di risvegliare la coscienza dei suoi concittadini, rilevando che quel tipo di mancanza di regole non può che condurre all'arbitrio, ma viene ucciso inopinatamente (ed in fondo aveva usato violenza per scuotere i passeggeri dal torpore: "Nessuno si ricorda niente", evidente quindi l'impegno a fomentare la rivolta, terminando con chiaroveggenza: "C'è bisogno di un'altra guerra"), come l'inconsolabile ragazza sul treno (la quale possiede tuttavia una bomba a mano!). Il bagno di sangue non è catartico, ma un disperato invito a superare in modo diverso annosi rigurgiti di strazianti torti, sapendo che non sarà possibile seguire il consiglio: "Se hai una ferita, non perdere tempo: guariscitela", se non nel modo più sinistro, perché non ci si può sottrarre: "Hai fatto un errore a tornare ed io ho sbagliato a restare". Dunque non è salutare un secondo incontro, ma negarsi è impossibile.

Ossessivo il refrain finale, ripetuto e duplicato all'infinito: "Di chi è la colpa?", "Domandatelo due volte di chi è la colpa ", "É colpa mia", "Non è colpa mia", "La colpa è dei pesci e dei sorci"...

 

Un dubbio: se noi siamo gli spettatori dello spettacolo, chi è il cliente del taxi che dice: "In questo Paese avviene di peggio"?